a guardia di un faro
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10 Novembre 2016Trovo che sia sempre molto difficile e rischioso parlare o scrivere di calcio. E trovo che troppi di quelli che lo fanno, anche e soprattutto in televisione, finiscano per fare dell’inutile agiografia, dell’insopportabile bozzettismo, del patetico tecnicismo, della retorica ruffianissima e inascoltabile. Per quello, se posso, non parlo e non scrivo di calcio.
Però è pur vero che il calcio (e sono ancora abbastanza lucido da non poterlo negare…) costituisce una parte rilevantissima della vita e della società europea per come si è andata configurando negli ultimi venticinque anni (la parabola mediatica e politica di Berlusconi, in Italia, coincide con la nascita del calcio come puro spettacolo di intrattenimento televisivo, è quasi ovvio); e che, per esempio, per i miei studenti sedicenni è quasi impossibile parlare di qualcosa, tra di loro oppure con me, che non sia il calcio, i calciatori, gli arbitri, il prossimo turno di Champion’s League, i tatuaggi di Ibrahimović, le fidanzate di Cristiano Ronaldo. Trovate magari che sia triste? Sì, anche io trovo che lo sia un po’. Trovate che sia un sintomo della nostra decadenza? Forse esagerate, ma non è impossibile… … [c’è per esempio una poesia di Giudici che finisce così… Però è una poesia, non è necessario fidarsi, anzi]. Ma è così, i ragazzi (quelli che conosco io, almeno) parlano di calcio e di quasi nient’altro, tra di loro, ed è quindi forse giusto, almeno ogni tanto, provare a parlare (senza fare agiografia, senza bozzettismo, senza nessuna forma di retorica, per quanto possibile) anche di calcio (lo fa spesso il mio amico Dino Huseljić, su questo sito: secondo me, lui è uno di quelli che lo fa bene, senza retorica né agiografia… Però è un mio amico, sono di parte, magari mi sbaglio: decidete voi).
E quindi oggi, domenica novembrina in cui le cose da fare non appaiono moltissime, vi consiglio un post e un libro che parlano di calcio, anche se, naturalmente, usano il calcio come metafora per parlare di tutt’altro. Ed è un ben altro che ha il nome della Jugoslavia, una nazione e una nazionale che non ci sono nemmeno più, e di un rigore sbagliato, ai mondiali di calcio di Italia ’90, che forse, in qualche impercettibile misura, ha cambiato le sorti del decennio successivo. Il post è ben scritto, ha un bellissimo titiolo: “L’ultimo eroe di Jugoslavia”, il libro promette di essere ancora più bello e ha un sottotitolo molto eloquente (è la mia prossima lettura, ve ne parlerò prestissimo); un estratto lo trovate qui:
Che cosa sarebbe accaduto se Faruk Hadžibegić, capitano della nazionale jugoslava, avesse segnato il rigore della vittoria, l’ultimo rigore della partita tenutasi il 30 giugno del 1990 a Firenze contro l’Argentina di Maradona? Per la prima volta nella sua storia, la Jugoslavia era riuscita ad arrivare ai quarti di finale dei mondiali. Evento unico che non ha più potuto ripetersi, poiché entro pochi anni la nazionale jugoslava sparì dalla storia del calcio, così come lo stato cui faceva riferimento fu cancellato dagli atlanti geografici. Che cosa sarebbe accaduto se i guantoni di Sergio Goycochea avessero mancato il pallone di Faruk, tirato all’angolo destro della porta argentina? È possibile che l’esito vittorioso di una partita fosse in grado di risvegliare in un popolo un senso patrio e un orgoglio identitario tali da placare divisioni interne giunte al loro massimo grado di tensione? Difficile sarebbe crederlo, per noi. Ma non per le persone che Faruk incontra durante il suo viaggio nei Balcani, 25 anni dopo la partita di Firenze, e che palesano, oltre allo stupore nel trovarsi di fronte a una figura mitica, tutto il rammarico per una possibilità mancata.
La Jugoslavia era pertanto anche quello: una nazionale di calcio piena di talento e di divisioni, che ogni volta, ad ogni mondiale, veniva accreditata come una possibile «sorpresa», per poi, quasi immancabilmente, deludere tutti (ma arrivò in due occasioni in finale agli Europei, nel 1960 e nel 1968). E visto che ogni volta che parliamo di ex Jugoslavia non possiamo non pensare a Sarajevo, che è stata senz’altro il cuore di quella terra divisa e la città-simbolo degli anni Novanta in Europa, mi permetto una finale digressione, per citare altre due città che si candidano seriamente a diventare il simbolo di questi anni Dieci.
La prima è Calais, di cui tante volte abbiamo già parlato: perché sarà bene continuare a non perdere di vista quello che lassù accade e accadrà, secondo me.. La seconda è fuori dall’Europa ma ci è vicina per troppe evidenti ragioni, ed è Mosul. Ne scrivo per la prima volta oggi, perché ho letto un post che mi ha aperto un po’ gli occhi su alcune cose che non sapevo. Spero sia utile anche a voi. Ve ne lascio un estratto, sperando vi faccia piacere leggerlo, prima che chiudiamo tutti insieme di nuovo gli occhi per guardare la partita di calcio di oggi pomeriggio. Buona domenica.
La situazione di Mosul, da questo punto di vista, era emblematica di un conflitto più ampio nel Paese: le milizie locali, cioè sunnite, si sono schierate con lo Stato islamico; contemporaneamente, all’esercito iracheno, che è a maggioranza sciita e dalle implicite connotazioni settarie, importava relativamente poco difendere la città, perché, appunto, si trattava di sunniti. Quando la città è caduta, il New York Times ha notato, giustamente, che s’è trattato del punto di arrivo «di una traiettoria di sfaldamento del Paese» che andava avanti dal 2011, quando le truppe Usa si sono ritirate. In altre parole, la caduta di Mosul nelle mani dell’Isis è stato lo specchio di un conflitto etnico-religioso che già da tempo stava distruggendo l’Iraq. Di conseguenza riprendere la città e riportarla sotto il controllo delle autorità centrali non sarebbe soltanto un colpo al califfato, ma anche un tassello importante nella ricucitura del conflitto settario.