L’ablazione transcatetere della fibrillazione atriale nei pazienti con insufficienza cardiaca: non tutto è scritto sulla sabbia…
4 Novembre 2018Idarucizumab nella gestione del sanguinamento gastrointestinale non controllato in corso di terapia con dabigatran
6 Novembre 2018Sono nato e cresciuto in Liguria, ma vivo felicemente in Sicilia, da alcuni anni. E quindi, come è naturale, ho dovuto ultimamente fare i conti con questa nuova terra su cui muovo i passi, su come sia questa terra, al di là dei luoghi comuni televisivi, su cosa racconti ai miei passi appena giunti su di lei e sul perché i miei passi siano giunti fino a qui. E pertanto, fatti alcuni di questi conti, direi che ci sono due brevi passaggi che sanno provvisoriamente riassumere il mio pensiero sulla terra in cui vivo, la Sicilia, e che i passaggi sono questi. Il primo scritto da Roberto Alajmo (qui):
Circola con insistenza l’idea che la Sicilia e i siciliani siano diversi rispetto al resto d’Italia. Diversi e più complicati. La risposta può essere articolata pirandellianamente: no, ma credono di esserlo, e questo li rende diversi e più complicati.
Il secondo scritto da Gesualdo Bufalino (qui):
Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto di isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e costumi, mentre qui tutto è mischiato, cangiante, contraddittorio, come nel più composito dei continenti. Vero è che le Sicilie sono tante, non finirò di contarle. Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele, quella purpurea della lava. Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell’angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale.Una, infine, che si sporge da un crinale di vento in un accesso di abbagliante delirio…
Ma da pochi giorni c’è dell’altro. Ed è che è appena uscito un libro che, a suo modo, riprende i temi di questi due brani di Alajmo e Bufalino, li rielabora in storie ironiche e umoristiche (ma non solo) e riesce a tratteggiare un profilo dell’isola in cui vivo, la Sicilia, che è forse il più riuscito e verosimile tra tutti quelli che io abbia letto di recente. Lo ha scritto Mario Fillioley, questo libro, e si intitola La Sicilia è un’isola per modo di dire, che è un titolo utile, oltre che bello. Ed è un tentativo di raccontare una terra così ampiamente raccontata in una modalità un po’ diversa dal solito, lontana della retoriche gattopardesche a cui ci siamo (un po’ pigramente) assuefatti, e più vicina non tanto alla realtà, così sfuggente, tanto in Sicilia quanto in Lombardia, quanto almeno alle persone che qui vivono (come me e Fillioley) o che di qui saltuariamente passano (come voi, se ci siete stati da ospiti o turisti).
E troverete, in questo libro, alcuni dei tratti che più caratterizzano quest’isola così poco isolata, in effetti: l’abusivismo delle seconde case al mare, per esempio; una certa ossessione per il cibo o per il colore biondo dei normanni, per altro esempio; e anche, non ultimi, i cambiamenti improvvisi che il turismo (sempre più massificato e invadente) ha portato in queste città e in queste terre, trasformandole secondo una direzione che ancora facciamo fatica a riconoscere.
E forse uscirete da questa (bella) lettura con un’idea della Sicilia un po’ diversa da quella che avete adesso, mentre leggete qui. O più probabilmente, a quel punto, finito il libro, non sarà nemmeno più importante l’idea che avrete della Sicilia. Forse esiste il fatto (ma non bisogna dirlo troppo chiaramente ai siciliani) che la Sicilia è davvero un’isola solo per modo di dire; e che altre terre sono isole anche loro, o arcipelaghi di isole, anche se magari il mare non le circonda per intero…
Insomma, vivo felicemente in Sicilia da qualche anno, ma sono nato e cresciuto e ho mosso i miei primi passi in un altro luogo del mondo, che si chiama Liguria. E c’è qualcuno (oggi sul web, ma ieri e l’altroieri nei versi meravigliosi di Montale o di Caproni, oppure nei romanzi nitidi e verticali di Francesco Biamonti) che è stato capace di sostenere con una certa letteraria credibilità che anche la Liguria sia un’isola, benché non lo si sappia e benché i liguri si ostinino a tenercelo nascosto. E alla poesia (più ancora che agli atlanti) è sbagliato non credere, soprattutto quando parla di luoghi e di infanzia. E oggi è anche scritto qui:
La Liguria come arcipelago di terre. Con isole di spazio e di tempo statiche, immobili, con cronotopi ed eterotopie in sonno, ma anche con improvvise correnti di spostamento, accelerazioni, linee di fuga, vene liquide e oleosi sargassi, che legano in un attimo, in una svolta di via, l’abusivismo degli anni Sessanta, l’aristocrazia Liberty, il Cinquecento marinaro, le fasce delle campagne in bilico, il Medioevo, la preistoria. Qualcosa che forse in un primo tempo, per caleidoscopica seduzione, può anche rallegrare, ma che in effetti ha più del minaccioso, del perturbante, perché ha comunque a che vedere con un senso di imminenza, un vuoto pronto a franare. Come una piena che non ha sfogo. Come un ponte costruito male. Qualcosa in agguato, insomma, tra casa e casa, tra casa e orto, tra orto e bosco. Quel lato selvatico che è l’irriducibile disumano su cui è edificata la Liguria, quella tempesta di terra con cui i Liguri vivono da sempre in collusione.