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pensare all’altro

La cosa più bella che potete leggere in questi giorni sul web non ha nulla (o quasi nulla) a che fare con il coronavirus; e poco (ma non pochissimo) a che fare con la letteratura.

La cosa più bella che potete leggere in questi giorni sul web è in realtà un’intervista concessa a Christian Raimo da Giovanni Fontana. [Mi fermo subito e dichiaro, come fate voi cardiologi ai congressi, il mio conflitto di interesse: conosco bene Giovanni Fontana, ho visto il campo profughi in cui lavora, lui ha visto casa mia e la scuola in cui lavoro, abbiamo parlato e discusso molto. Insomma, per me, non è solo l’uomo che ha fondato una piccola Ong in uno sperduto campo profughi della Grecia, che ha sempre bisogno del nostro sostegno: è anche una persona a cui sono legato da affetto e amicizia, l’ho detto.] Ma la sua intervista è bella e importante, non soltanto perché è la testimonianza di un uomo che è stato capace di fare scelte forti, con l’intento di cambiare un po’ il mondo che viviamo. Ma soprattutto perché decostruisce l’idea dell’«altro» che in questi anni ci siamo fatti, l’idea in cui confiniamo l’«altro» (da destra e da sinistra), anche quando vogliamo «aiutarlo», rendendolo immediatamente qualcosa di diverso da noi, qualcosa d’«altro» appunto.

Ecco, insomma, leggetela questa intervista. E ci indovinerete la storia di Giovanni, tra una domanda e  una risposta, che è già di per sé una storia letteraria. Ma soprattutto ci troverete le storie difficili di uomini che stanno scappando, di esseri umani in fuga verso non si sa cosa, verso un filo spinato, magari verso la nostra ostilità o la nostra ipocrisia, probabilmente verso il muro delle nostre pessime ragioni.

Ed è un’intervista lunga e a tratti molto impegnativa, vi devo avvertire. Ma vale tutta la fatica che farete a leggerla. Perché ci troverete dentro risposte come questa, per esempio:

Il profugo viene considerato prima di tutto, come ho detto, “un altro”: una persona con cui non si può fare una discussione, una persona con cui non si può avere una differenza d’opinione, una persona con cui bisogna rapportarsi sempre in maniera – lo dico con molto rispetto – “manipolatoria” […] Ovviamente, molte di queste persone hanno avuto un passato estremamente difficile. Non voglio generalizzare, ma c’è chi ha subito torture, c’è chi ha subito tante torture che non capisce più nulla, c’è chi è stato vittima di un naufragio, c’è chi ha avuto, come dire, paradossalmente la fortuna che gli hanno distrutto la casa quando lui non c’era e quindi lui o lei è potuto scappare.  Però chiaramente ridurre quella persona alla propria vulnerabilità rende quella persona un’etichetta. E per quanto molti lo facciano in buona fede, quando etichetti le persone finisci per negare loro l’umanità. Certo, quella persona sarà dovuta scappare dalla propria casa in Siria, però è tante altre cose: è tifoso del Real Madrid, gli piace il gelato al limone, non sopporta la musica classica eccetera. E noi essenzializziamo questa persona. 

Oppure ci potrete sentire la voce di Giovanni Fontana che pronuncia questa frase (l’ho presa da un social, non è nell’intervista, ma è forse l’anima stessa dell’intervista):

Quando migliaia di persone disperate corrono verso una frontiera, abbiamo davvero soltanto due opzioni: pensare alla salute delle persone, o pensare alla salute della frontiera. I nostri nipoti ci giudicheranno in base a questa scelta.

O ancora questa battuta qui, ovvia ma luminosa, semplice eppure folgorante:

Uno dei nostri principi è che noi non rispettiamo le culture, noi rispettiamo le persone. Perché rispettare una cultura vuol dire rispettare chi comanda in quella cultura, e generalmente vuol dire maschi, anziani ed eterosessuali. In pratica io e te, Christian.

Io lo so che siamo in balìa di un virus in questi giorni e facciamo molta fatica a pensare all’altro, ad altro. Ma ho come l’impressione che ci possa invece essere una briciola della nostra salvezza, proprio in questo pensiero. Pensare a chi è in carcere, per esempio. Pensare a chi è in casa di riposo. O a chi è in un reparto psichiatrico di un ospedale qualunque. Pensare a chi in un campo profughi non può mai evitare i contatti con gli altri, perché i gruppi e gli assembramenti sono ovunque. Mi pare utile pensare anche a questo, in queste giornate di clausura forzata. Mi pare, scusatemi il termine, salutare.

Davide Profumo
Davide Profumo
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