dover capire
3 Novembre 2019una siepe, un muro, un ponte, la luna
10 Novembre 2019Leggete qui, per esempio:
La malattia fa spesso venire una gran voglia di essere capiti. I malati all’ospedale non fanno che chiedere ai dottori di capirli. Vogliono essere capiti dalla scienza e rimessi a posto come macchine. Tutti noi malati coltiviamo questo ideale meccanico di comprensione, che ci dà qualche speranza. E gli altri naturalmente mostrano di capire la “cosa” che ci rende malati. C’è sempre un gran traffico di dicerie tra parenti e dottori, per capire la “cosa” che rende malato un malato. E i dottori la spiegano con le loro parole meccaniche, ma nessun parente e nessun malato sa di preciso di cosa parlino i dottori.
Sono parole di Gianni Celati, e se andate avanti a leggere il post (lo trovate qui), di cui queste righe sono soltanto l’incipit, vi verrà detto che è lo stesso Celati ad essere ammalato in questo momento; e vi verrà in qualche modo raccontato che la comunicazione durante la malattia utilizza canali sorprendenti, strane e imprevedibili pieghe del gesticolare e del sorridere.
Ecco, ho pensato, c’è davvero un legame forte tra il fare letterario e l’essere ammalati. E non c’è bisogno di pensare a Leopardi o a Kafka, per capirlo. In verità è tutto molto più semplice: abbiamo bisogno di essere capiti e di capirci, quando stiamo male ne abbiamo più bisogno, usiamo le parole per farlo, ma le parole non bastano; usiamo i gesti, ma non bastano neppure loro; e gli sguardi e i sorrisi sono rari, non funzionano se non da molto vicino… Ed ecco allora ci sono le metafore, i racconti, le costruzioni narrative, i versi dei poeti, le parole magiche, le finzioni dei teatranti, gli abracadabra metrici della poesia… E abbiamo inventato la letteratura. Volevamo soltanto dire il nostro male, volevamo soltanto essere capiti da qualcuno, ma abbiamo scritto un libro, gli abbiamo dato un titolo, lo abbiamo spedito per il mondo a raccontare chi siamo. Ha funzionato (se ci chiamiamo Kafka ha funzionato parecchio…). Noi non stiamo meglio in realtà, se ci chiamiamo David o Cesare ci siamo pure nel frattempo suicidati, a causa di quel nostro terribile male, non stavamo per niente meglio… Ma altri hanno letto e capito, porteranno le parole nel futuro, in qualche modo ha funzionato: non è una cura, è solo un piccolo inutile parziale passaggio del testimone.
E non è solo Celati che oggi ci offre lo spunto per ricordarci questa semplice e banale verità letteraria. Ne scrive anche David Valentini a proposito di un libro che su queste pagine abbiamo detto e ripetuto di amare molto, L’uomo che trema, di Andrea Pomella. Valentini ne racconta bene un angolo, una prospettiva, quella che riguarda la malattia e il desiderio (la necessità?) di comunicarla, anche se questo significa spogliarci davanti a tutti e aspettare le reazioni di chi ci guarda, mentre siamo nudi. Lo dice bene qui (ma l’intero post lo trovate qui):
La forza di Pomella, in Anni luce così come – e anzi maggiormente – ne L’uomo che trema, sta nell’aprirsi al lettore, nel mettersi a nudo nelle proprie parole come spesso soltanto chi è da solo nell’intimità delle proprie riflessioni riesce a fare. Se vogliamo credere alla sua buona fede, dobbiamo accettare il fatto che ciò che leggiamo nei suoi testi non è in alcun modo stato sottoposto a quell’opera di celamento che molti autori compiono: per raccontarvi la mia storia modifico nomi, luoghi, personaggi, persino gli eventi, così da non sentirmi esposto in prima persona sul palco, le luci puntate su di me. Pomella invece non risparmia niente e porta sulle pagine – in pasto a noi lettori, che diciamoci la verità siamo sempre alla ricerca di una storia interessante, ma anche spesso di un dolore che distragga dal nostro, che spesso viviamo di Schadenfreude – la propria passione, il proprio passato, la propria sofferenza.
Perché, insiste Valentini, la malattia è una passione, come la letteratura, come la poesia: la malattia è una passione e dunque si subisce. E sono, queste passioni, «in grado di dilatare il tempo fino a fermarlo». Ecco, la malattia ferma il tempo, come la poesia. E forse ci mette davvero a nudo, finalmente, nudi soprattutto di fronte a noi stessi. Come una poesia.