un mistero
20 Ottobre 2019le città divise
27 Ottobre 2019Una recensione che mi piace è una recensione che mi fa venire la voglia di mettermi di corsa le scarpe, di uscire rapidamente di casa e camminare veloce, di salutare frettolosamente il libraio (che pure è gentile e si meriterebbe almeno un po’ di chiacchiere…) e di comprare un libro, proprio quel libro. E poi di tornare a casa altrettanto di corsa, evitando il fruttivendolo per non perdere tempo (e anche lui è così gentile, si meriterebbe ben altro…) e aprire il portone di casa trovando in fretta le chiavi nella tasca giusta e, senza nemmeno togliermi le scarpe, finalmente, mettermi a leggere il libro, quel libro. Questa fa una recensione che piace a me, generalmente. E oggi ne ho lette addirittura tre, di recensioni così, per cui potete immaginare la voglia che ho adesso di correre fuori.
Ma per fortuna la prima è la recensione di un libro che già ho letto (molti anni fa) e pure riletto (qualche anno fa). E ho pure il sospetto che sia un libro di cui ho già altre volte parlato, su cui costantemente ritorno. Si tratta di uno strano romanzo che si intitola Trilogia della città di K, lo ha scritto Agota Kristof, e oggi ne trovate qui una rapida ed efficace recensione, capace di coglierne un aspetto importante che forse, nonostante le mie due letture, mi era un po’ sfuggito:
Agota usa una lingua essenziale in questa trilogia, senza nessuna impronta morale o emotiva. Le cose vanno dette per come accadono, dargli il nome giusto, se si può perfino un solo singolo suono. Quello che succede durante la lettura però è colpa del lettore, ci rigiriamo per bene nel nostro bozzolo di emotività, siamo bambini anche noi, cediamo, siamo deboli e mollicci. Gli episodi narrati sono atroci, terribili, violenza e sopravvivenza si alternano senza sosta. Tutto è una corsa dell’uomo a evitare di ridursi in bestia, o meglio ancora a sfruttare la bestia che sta dentro l’uomo. Rientriamo nel linguaggio dando fiducia al narratore, i bambini sono buoni e dicono la verità, noi abbiamo detto la verità, noi siamo buoni.
Il secondo libro invece, sempre per fortuna, è già qui in casa mia, poco lontano da questa scrivania, e lo sto leggendo, con pazienza e dedizione, proprio in questi giorni, una poesia al giorno. Ne ho già parlato anche qui, lo so. È una vecchia e insuperata raccolta poetica di Montale con un commento intelligente e coltissimo, da cui sto imparando tantissime cose (tra cui, più importante di tutte, sto imparando quello che già sapevo e già da tanti anni ho imparato e che ogni volta ritorno a imparare: e cioè che la poesia ci dice cose diverse ogni volta che la leggiamo, pur restando la stessa poesia: e che non si legge mai, come se fosse un fiume, la stessa poesia…). Ne ho letto, di questo libro di poesie di Montale che si intitola La bufera e altro, una bella recensione (la trovate qui) scritta da Nicola Gardini. Mi piace pensare che possa essere un efficace invito alla lettura di Montale per tutti:
La verità, insomma, è lì davanti, ma che farne? Come leggerla? La bufera ci sfida appunto alla lettura, montando e rismontando di continuo le sue certezze. Per questo è e vuole essere enigmatica, e deve esser presa come enigma. Anzitutto, leggendo, dobbiamo sforzarci di capire i suoi versi, il suo senso, ma l’interpretazione della poesia, di questa poesia, sta simbolicamente per la decifrazione del mondo e della storia in cui siamo immersi tutti, uno per uno. Ecco la grande lezione: che nessuna vita può sottrarsi alla responsabilità di capire. Così, Montale ha elevato la cronaca personale alle altitudini del rito sacro. La vita di ciascuno diventa una missione, la cronaca un destino, cui andare incontro o negarsi; una vicenda, comunque, dotata di un significato segreto. Un gesto, uno sguardo, un momento della giornata si sottraggono al transeunte, mitizzandosi nelle fasi di un culto. Nessun altro poeta italiano ha saputo rappresentare con altrettanta musicale presunzione il fato di essere chi si è, all’interno di un ordine che sfugge sempre…
E infine, terza recensione, c’è anche il libro che non ho letto (e che ho lasciato per ultimo proprio per questo, perché so che ora dovrò uscire di corsa di casa e ricordarmi di non salutare il fruttivendolo, perché ho fretta, e tenere ben a mente in quale tasca ho messo le chiavi, per trovare il più rapidamente possibile…). È un libro che parla di animali, che racconta le loro migrazioni, il loro destino di tornare a casa e indirettamente anche ci parla di come noi stiamo abitando e modificando il pianeta, distruggendo le case a cui loro vorrebbero tornare, e di come anche noi migriamo da secoli, da millenni, da sempre. La recensione è questa, la trovate qui. E riporta, a un certo punto, questo breve passo del libro che, lo dimenticavo, ha un titolo bellissimo, Senza confini:
Il nostro pianeta è attraversato da miliardi di animali migratori in viaggio: uccelli, mammiferi marini, terrestri e volatori, pesci, anfibi, rettili, insetti e altri invertebrati ancora. Migrano i giganti del mondo, le balene, così come alcune delle creature più leggiadre: le farfalle. Piccoli o grandi, da soli o in gruppo, percorrono migliaia di chilometri ogni anno, affrontando difficoltà e pericoli, su percorsi infidi che costano loro la vita. Tutto per riprodursi e trovare cibo a sufficienza. Ma come fanno a raggiungere la loro destinazione? Come si orientano e come riescono a tornare ogni anno esattamente nel luogo in cui sono nati? E soprattutto, perché migrano?
E ora basta, lo avete capito, che ho già le scarpe ai piedi e mi sto allacciando le stringhe e con lo sguardo sto cercando le mie chiavi di casa. Eccole, sono loro la banale garanzia del mio ritorno.