In questi giorni, dopo che il 2 settembre è morto Daniele Del Giudice, ho ripreso in mano un suo volume di racconti (l’ho fatto senza sceglierlo, mi è semplicemente venuto in mente quello, non i suoi romanzi, che pure ho molto amato, ma proprio quel libro di racconti con la sua copertina quasi tutta grigia, non so perché) e li ho riletti, a pezzi, passando continuamente da uno all’altro, come se volessi rileggerli tutti insieme, contemporaneamente.
Si intitola Staccando l’ombra da terra questo libro di racconti, parla di voli, di prove di volo, di momenti in cui ci si sente da soli in volo, di famosi aviatori e di un famoso incidente aereo… ma parla anche, tra le righe, del volo come metafora, e quindi di Icaro, il bambino che vola e muore, parla di mitologia, parla di Ulisse (il dantesco «folle volo», ve lo ricordate?), parla dell’Ippogrifo di Ariosto, e quindi di tutto quello che abbiamo perduto, come il senno di Orlando, parla delle sfide del genere umano alla natura, alla forza di gravità, al mare in tempesta, parla quindi anche degli Argonauti e parla del viaggio, che è come la vita, forse meglio, senz’altro.
È un libro che inizia con questa frase:
Non c’è un momento preciso né un giorno fissato, non ti sarà preannunciato da alcun segno esteriore, nulla nei comportamenti e nel paesaggio sarà diverso dall’abituale, il sole a filo della pista, la pista che finisce nel mare, niente comunque ti farà presagire che è giunto il momento per te, di trovarti su un aeroplano senza passeggeri, senza piloti, senz’altri che non sia tu stesso, come nel peggiore dei sogni…
E ne trova altre come questa, nel suo percorso:
Il nord è il nord, sebbene non il solo, ma è un semplice riferimento, ogni grado della bussola gode di pari dignità, qualunque punto della terra è contemporaneamente origine e fine del viaggio, capovolto di volta in volta e all’occasione. Se potessi accettare che quel che conta è solo il tratto, anzi la tratta come tu chiami il percorso, senza nostalgie della partenza né dell’arrivo; oppure sapere che partenza e arrivo possono essere la stessa cosa, coincidere. Forse voliamo per questo, per quel piccolo appagamento che dà ogni volta il partire-arrivando, l’arrivare nell’atto stesso del partire, e per l’idea di aver compiuto almeno questo: sembra di avere fatto qualcosa, anche se quel che si è fatto sono solo miglia.
E quasi alla fine dell’ultimo racconto vi lascia leggere anche queste righe:
Volo basso lungo la costa, Bastia è già in vista… la Corsica. Faccio giravolte. Sono contento. No, il mito non c’entra nulla. Il volo ha avuto a che fare col mito finché non è stato umanamente realizzabile. Una volta inventato l’aeroplano, c’è una sola cosa al mondo con cui il volo è veramente connesso, ed è l’infanzia. I piloti non hanno ali piumate, non sono angeli e tanto meno eroi, sono bambini adulti, bambini nascosti, ben custoditi nella loro maturità, ben conservati dentro una delle imperturbabili professionalità che la vita ha loro assegnato, ma legati all’infanzia con un elastico da fionda che gli sbuca dalla tasca. Se poi tra l’infanzia e la morte ci sia uno speciale rapporto, non saprei dire.
Ci penso da molti giorni, alle parole che vorrei scrivere per Daniele Del Giudice (mentre sfoglio con ostinazione un po’ ansiosa queste sue pagine), e non le ho trovate, come ben vedete. Riesco solo a usare parole sue (qui, a questo link, ce ne sono alcune altre, splendide, sulla scrittura). Mi dico, perché non so fare altro, che forse è giusto così, che io non sappia trovare le parole. Che vi possa soltanto dire che Staccando l’ombra da terra è un libro di racconti tra i più belli che siano stati scritti negli ultimi decenni, vale la pena leggerlo e anche rileggerlo. Parla infatti di voli aerei, ma anche di Icaro e di Ulisse, di infanzia e di morte, di viaggi, e per qualche istante prodigioso solleva il nostro peso dalla superficie della terra.