Ci sono tanti modi di parlare di poesia… Il primo, naturalmente, è proprio parlare di poesie, quelle scritte da un poeta. Ed è il modo migliore, se il poeta è bravo (altrimenti è meglio parlare d’altro: del tempo, del cibo, del vento che soffia, della pioggia che cade, delle ragioni e dei torti, soprattutto dei torti). E se il poeta non è solo bravo ma proprio grandissimo, come fu Wystan Hugh Auden, ecco allora che di parole altrui ne servono assai poche; ed è bello lasciare spazio alle parole della poesia in sé, anche se tradotte, lasciarle risuonare nel bianco della pagina. Oggi, di Auden e della sua poesia, si può leggere così:
Quando si pensa alla più grande mente del ventesimo secolo, i primi nomi che si affacciano sono quelli di scienziati (Einstein, Heisenberg), statisti (Gandhi, Churcill), magari pittori (Picasso), musicisti (Stravinskij), architetti (Le Corbusier), financo filosofi (Simone Weil). Difficilmente si pensa a un poeta. Ma proprio in questi termini (“la più grande mente del ventesimo secolo”) parla di Wystan Hugh Auden il poeta russo Iosif Brodskij… Che un ingegno acuto come Brodskij – premio Nobel per la letteratura nel 1987, forse il più grande poeta russo della seconda metà del Novecento – si spinga a tanto avrà un significato, una spiegazione, un punto d’appoggio. Non sarà il semplice frutto di un commosso omaggio amicale. Chi conosce i saggi di Brodskij sa che il russo pratica un profondo scavo critico, mai arreso a slogan o a facili soluzioni. E dunque?
Ma si può parlare di poesia anche altrimenti. Si può prendere la poesia grandissima, quella delle origini del tempo, quella omerica, e farla risuonare nelle proprie parole, come se le animasse, come se un fuoco continuasse a bruciare in qualsiasi parafrasi, come se quelle parole raccontassero un viaggio che ancora non abbiamo smesso di fare e quindi nemmeno di raccontarci. Lo fa oggi, con i versi dell’Odissea, Roberto Mussapi e, come al suo solito, lo fa splendidamente:
Circe, la maga incantatrice, gli predice il primo pericolo a cui andrà incontro nel suo viaggio di ritorno verso Itaca: le Sirene, esseri magici che appaiono in mare, dalla voce che genera un irresistibile incanto. Ma quell’incanto cancella memoria e identità, trascinerà il navigatore in fondo al mare, dissolvendolo. Ulisse conosce quindi in anticipo il supremo inganno del mare, il mistero di una voce ammaliante che proviene dal canto di esseri alati, donne e uccelli, che in mare appaiono. Uccello, voce, acqua oceanica, i tre elementi si fondono nel mistero supremo e nel pericolo della perdita totale di sé, il naufragio assoluto. L’Odissea, il poema in cui l’umanità si riconosce in una ciurma, salpata da un porto e diretta a un altro porto, e in cui nasce la letteratura di viaggio e d’avventura, ci presenta un viaggiatore naufrago e in lotta col mare…
Oppure ci si può accontentare di scomparse e ricorrenze, anche a proposito della poesia. Pure questo è un modo per parlare, ancora, di poesia. Magari è il più semplice, magari ad alcuni parrà anche il più superficiale… però è un modo: la poesia agisce, trova fessure, si infiltra nell’esistenza, la corrode. E oggi è il giorno di una celebrazione che faremo, leggendo notizie e brevi ritratti coccodrilleschi, ma forse, speriamo, imbattendoci anche in qualche bella poesia che credevamo di avere dimenticato, come questa.
E infine (ma non sarà la fine) ci sono i romanzi che sembrano parlare d’altro e invece nascondono in sé il cuore della poesia, quella immortale, quella delle parole di secoli fa che ancora risuona nelle nostre parole contemporanee, nonostante tutto, nonostante i mutamenti e le fughe. Se ne racconta oggi in questo post, che presenta l’ultimo (interessante) romanzo di Ian McEwan:
Difficile che uno scrittore occidentale dica del proprio ultimo lavoro, pubblicato nel 2016 e commercialmente spendibile come un thriller, che ‹‹è un inchino alla poesia››. Quasi impossibile, poi, che la voce narrante del soliloquio di pura percezione che sostiene questo inchino sia un essere cieco e non senziente; un personaggio più rischioso, a ben vedere, della Helen Keller bambina: un feto […] Ma la poesia? L’inchino, anzi, come lo ha chiamato Ian McEwan, può davvero compiersi per mezzo delle parole di un feto che rivive, non senza un certo distacco embrionale (o inglese?), la vicenda di Amleto, alternando azione immaginata e filosofia anti-esperienziale?
Ma era qui che volevo portarvi. Nel fondo del luogo in cui può giungere la poesia. E siccome è domenica grigia e di pioggia in quasi tutta la penisola, c’è un quasi un gioco che volevo proporvi. Ed è anche questo un modo, divertente, di parlare di poesia; quella di Dante, in particolare. È un viaggio animato nell’Inferno dantesco, ben costruito, capace di farci rivivere quella lettura lontana e così scolastica, in versi nuovi, quasi da riscoprire. È un luogo di poesia in cui ci si perde facilmente, io vi avverto. E poi, dopo avervi avvertito, vado a perdermici io stesso, come già feci tanti anni fa, mentre leggevo quei versi senza sapere, senza nemmeno poter immaginare che mi avrebbero accompagnato per una strada così lunga, fino a qui.