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paesaggi d’Europa

Arrivò un giorno a casa mia un amico, io abitavo nella periferia di Milano, era estate, era caldissimo, quell’afa padana che impedisce il respiro, arrivò, ci mettemmo seduti sulla terrazza che aveva quella casa (fu la prima terrazza della mia vita, fu il luogo in cui scoprii che non amavo le stanze chiuse), parlammo un po’. L’amico veniva da lontano a chiedermi un favore, in cambio portava un libro. Non ricordo se gli feci quel favore, mi ricordo il caldo e il suo sguardo preoccupato, non l’ho quasi più visto quello strano amico, un paio di incontri fugaci, per sbaglio, lungo le strade della città che avevamo in comune; poi, qualche volta, le parole di qualche conoscenza di entrambi che, tra un frase e l’altra diceva, Ah, sai, ho visto quell’amico l’altro giorno, Come sta?, chiedevo io, nemmeno ascoltavo la risposta…

Ma ricordo il libro. L’amico mi disse, andando via: Ti piacerà. Si intitolava «Vento largo» e me ne innamorai, in pochissime pagine. E poi mi innamorai dello scrittore, si chiamava Francesco Biamonti, e comprai tutti gli altri suoi romanzi, era il 1995, Biamonti era ancora vivo, feci in tempo a sentirlo intervistato alla radio, la sua voce così ligure, un pomeriggio.

E penso a Biamonti, oggi, perché mi tocca (come a voi, del resto) pensare all’Europa, pensarla come terra mia, terra nostra: ed è cosa che ci appare difficile. E Biamonti ebbe il merito, quel giorno, di farmi sentire che alla terra si appartiene per sempre: nessuno sapeva descrivere la Liguria, il mare della Liguria, la luce della LIguria (da cui sia io che quell’amico veniamo) come lo aveva fatto Biamonti, raccontandomela, spiegandomela, descrivendo ai miei occhi quello che i miei occhi avevano per tanti anni avuto davanti, senza saperlo vedere.

È raccontata benissimo qui, oggi, la scrittura di Biamonti (uno dei più grandi del Novecento, sul serio: provate prima di scuotere la testa, provate con «Vento largo»…). È raccontata con queste parole:

Salivo un pomeriggio ad Apricale. Il paese era in rilievo contro il cielo, le case arroccate si stringevano accerchiate dal verde delle colline. Le persiane erano occhi, pareva che Apricale si voltasse stanco come una vecchia bestia accigliata. Una viaggiatrice è discesa da una Mini rossa, ha scattato una foto all’animale stanco, è rimontata in macchina arricchita di belle parvenze.  Accanto a me gli ulivi alzavano rami spogli come scheletri slavati, o braccia scarne d’argento coronate da edera soffocante. Erano ancora vivi, perché dal tronco emergevano ramoscelli e foglie. Lungo il ciglio si accumulavano tegole rotte, una lattina di Fanta bianca stinta dal sole, una tanica lacerata. Poco oltre, blocchi di cemento stringevano la strada: proteggevano un tratto franato, il guardrail piegava verso il fondovalle. Brani di asfalto erano divelti come zolle di terra, sospesi in equilibrio precario. Fra i frantumi cresceva un lentisco… “In questo mondo frana tutto”, lamenta un personaggio di Le parole la notte, l’ultimo romanzo di Francesco Biamonti.  Dentro il paesaggio di suggestioni pulsa un dissesto di frane. E in un altro dialogo leggo: “Mi domando a chi toccherà l’ultima parola: ai roveti? – Nell’arido trionfano le ginestre spinose. Formano un bel tappeto. Poi ancora qualche incendio, e buona notte!”

Ma c’è un altro scrittore a cui devo il senso del paesaggio, che è poi, per me, il senso stesso della geografia e quindi dell’appartenenza territoriale e quindi dell’Europa, che mi chiama oggi con una voce difficile da decifrare, ma che farò lo sforzo di ascoltare. Ebbi il piacere di conoscerlo, questo scrittore, addirittura una sera gli parlai al telefono. Aveva marcato accento veneto, cadenza inequivocabile, era Andrea Zanzotto, mi piacque subito, provai a leggere i suoi versi più difficili, li scandivo sillaba per sillaba nella mia testa, nel tentativo di capire. Non so se capii e quanto capii, oggi non mi pare nemmeno importante. Mi rimanevano nella testa solo i suoi paesaggi, le colline e la neve, quello mi piaceva.

E mi pare quindi importantissimo quello che ne scrive oggi Sara Massafra, che arriva, dopo averci raccontato il poeta in modo limpido, a dire così:

Attraverso la sua parola poetica, Zanzotto intende creare un senso, colmando il vuoto che si avverte stando al mondo e soprattutto: “rilanciare negli spazi disincantati del moderno il sogno di un luogo che non è ancora, ma è sempre potenzialmente in atto”. In tutta la sua opera, dunque, è avvertibile questo inscindibile legame tra poesia e utopia, in quanto “‘missione’ di una letteratura che torna a presentarsi come polo e generatore di libertà, orizzonte di fuga che accosta il possibile all’impossibile”. Il marcato antropocentrismo contemporaneo ha eroso le aspettative utopistiche del poeta, attraverso un movimento dello spazio che inizia ad intaccare anche uno spostamento nella storia, dove quest’ultima tende sempre più a travolgere il territorio: per Zanzotto l’unico luogo autentico di insediamento autenticamente umano risiede nella poesia.

Ecco, vorrei concludere. A volte arrivano amici a casa tua, un pomeriggio, sembra che vengano a chiederti qualcosa ma in realtà te ne stanno portando una, inattesa e ben più importante. A volte magari è un libro, esile, che ti aprirà un mondo. Non perché il mondo non esistesse prima di quel libro (il mondo esisteva anche prima di te…) ma perché tu non eri mai stato capace di vederlo. A volte succede.

Davide Profumo
Davide Profumo
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