Tra le poche cose che mi ero ripromesso di non dimenticare, qualche mese fa, mentre scrivevo questa sporadica rubrica, c’è stata, senza dubbio, la necessità di continuare a ripensare il lavoro di Umberto Eco. Non tanto per un’esigenza di memoria, ovviamente (ché quelle sono cose private, ognuno le fa per sé); quanto piuttosto per cercare di precisare l’interpretazione del suo lavoro, per non ridurla a un facile luogo comune (di quelli che lui stesso derideva), per non cadere nell’ovvietà degli autori che si crede di ricordare ma che si è, in verità, dimenticati, riducendoli a mere ricorrenze.
È quindi con grande piacere che noto che durante questa estate è uscito uno splendido pezzo su Eco e sulle sue teorie semiotiche. E non solo un articolo, in realtà; perché l’articolo parla di un libro e anche il libro, che ho ben cominciato a leggere, sembra assai interessante e forse anche importante (anche se , scusate la maldestra intrusione di un mio parere del tutto personale, ha davvero una brutta copertina). Trovate tutto segnalato qui. Io per oggi mi limito a riportare in questa sede un bel passo di questo articolo, che merita forse un poco della nostra attenzione:
Umberto Eco era un vero intellettuale, che si metteva al servizio della società, della comunità – si vedano, per esempio, i suoi contributi fondamentali al dibattito degli anni Settanta sulle BR, da pagina 122 in poi del libro in questione. E, per questo motivo, Eco è stato anche una delle persone più citate al mondo. Ma le citazioni, si sa, sono caricature: prendono una piccola parte e, ingigantendola, la deformano. Qualche esempio di vulgate deviate: Eco pensa che Superman abbia lo stesso valore di Baudelaire. Sbagliato. Eco ride su tutto e di tutti e prende le cose con leggerezza. Erroneo. Eco è esageratamente erudito e considera la cultura come accumulo di nozioni fini a se stesse. Scorretto. E poi c’è l’annosa questione degli apocalittici e degli integrati, sulla quale vorremmo spendere qualche parola in più, per fare finalmente chiarezza…