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oppio e sanguisughe

Perché questa nostalgia? E di che cosa? Mi sono dovuto fare queste domande molto spesso, durante questi mesi tra pandemia, quarantena e falliti tentativi di fuga da fermo. E sempre mi sono dato la stessa risposta: Non lo so.

Eppure la nostalgia è stata il sentimento che mi ha in qualche modo avvolto e dominato, fin dai primi giorni della primavera scorsa. Forse perché è una passione insita nel movimento, il sentire di chi va ed è lontano, di chi guarda incerto al futuro; e io ero nel frattempo immobile ma incerto, chiuso dentro una casa ma lontano dalla mia vita, da quella che avevo immaginato essere la mia vita.  O forse perché siamo condannati ad avere nostalgia di troppe cose, come ho letto in un libro (questo) che mi ha accompagnato per qualche giorno. Ed è una condanna ma anche la nostra continua risposta alla tentazione dell’oblio:

Si ha nostalgia dell’infanzia che si è vissuta, e continua a vivere arcana e segreta nella memoria. Si ha nostalgia di una persona amata che ora, lontana o scomparsa, non c’è più. Si ha nostalgia di una casa che si è lasciata, e che piena di ricordi continua ad accompagnarci nel nostro cammino con le sue penombre, e con i suoi bagliori, con gli sciami di emozioni perdute e invano ricercate… Ci sono nostalgie che aiutano a vivere e ci inducono a guardare al passato, a recuperarne le immagini, e sono donatrici di senso.

E ho ripensato subito, ovviamente, a Itaca: alla nostalgia di Ulisse che seduto sull’isola meravigliosa di Calipso ripensa alla sua pietrosa isola, ai sassi che non ha più rivisto, a Penelope. Ma ancora di più, quasi immediatamente, ho ripetuto a me stesso, tra i denti, cercando le rime e le parole, una manciata di versi danteschi, quelli che dicono che la nostalgia è anche la spina dolorosa del pellegrino, in uno degli incipit di canto più famosi di tutta la Commedia, quello del canto VIII del Purgatorio:

Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more…

È dunque forse la nostalgia del navigante quella che forse ci prende in questo tempo confuso; ci «intenerisce il core», come fanno le cose che commuovono, ci «punge», come fanno le cose che danno dolore e danno consapevolezza.

Ma Dante usa una parola ben più generica per dire questa dolcezza che opprime: disio. Nei suoi versi non poteva trovare posto la parola nostalgia, perché non esisteva ancora (è stato Antonio Tabucchi, di recente, in televisione, a proporre di parafrasare quel termine di quel verso, disio, con la parola saudade nientemeno); nostalgia è invece una parola recente, che designava una malattia. Di nostalgia quindi dovreste, alla lettera, occuparvi voi medici e cardiologi che mi ospitate qui, visto che forse è una malattia del sangue e del cuore.

L’ho imparato pochi giorni fa, leggendo un post di Annamaria Testa (lo trovate qui), ho imparato questa strana origine di una parola che definisce un sentimento che anche Dante provava (Dante pellegrino in ascesa verso Dio, Dante che chissà, mentre il sole tramontava sulla montagna del Purgatorio e sullo sconfinato oceano, chissà cosa rimpiangeva: Firenze?) ma per il quale non aveva un nome. E ho imparato così:

Tuttavia, anche se l’emozione è antica, il termine specifico che la descrive è recente. A coniarlo a fine 1600 è uno studente di medicina alsaziano, Johannes Hofer. Il quale per primo descrive lo stato emozionale provato dai mercenari svizzeri sradicati dalle loro montagne, dislocati al servizio di Luigi XIV, e debilitati, appunto, dalla nostalgia. La sindrome di cui parla Hofer comprende svenimenti e febbre alta, mal di stomaco e morte. Tra le cure suggerite: oppio e sanguisughe.

Perché tutta questa nostalgia, quindi? Non lo so, continuo a non saperlo. Ma è certo che c’è il senso di aver perduto qualcosa, in questo sentimento che mi (ci?) avvolge, in questa aria densa che circonda; e insieme il senso di qualcosa verso cui mi sto muovendo, che non riesco a capire ancora cosa sia. Ci sono un passato e un futuro, ed entrambi restano appesi ai giorni che non passano, come un Ulisse qualsiasi seduto sullo scoglio di un’isola qualsiasi mentre ripensa ai sassi di casa sua, tanti anni fa.

Oppure come un’altra poesia, anch’essa sulla nostalgia, inseparabile, scritta pochi decenni fa da Rafael Alberti, «marinaio in terra», gaditano. Questa poesia:

Sempre questa nostalgia, quest’inseparabile
nostalgia che ogni cosa allontana e muta.
Dimmelo tu, albero.
 
Ti guardo. Mi guardi. E non sei più lo stesso.
E non è lo stesso il vento che ti sferza.
Dimmelo tu, acqua.
 
Ti bevo. Mi bevi. E non sei più la stessa.
Non è la stessa terra della tua gola.
Dimmelo tu, sogno.
 
Ti prendo. Mi prendi: E non sei più lo stesso.
Non è lo stesso astro che culla il tuo sonno.
Dimmelo tu, stella.
 
Ti chiamo. Mi chiami. E non sei più la stessa.
Non è la stessa la chiara notte che ti brucia.
Dimmelo tu, notte.

Davide Profumo
Davide Profumo
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