quando non ci saremo più
4 Settembre 2019immaginare il passato
12 Settembre 2019Che si viva di «terre sognate», di linee di una costa che non appare sull’orizzonte ottico, tanto tempo dopo che ci siamo coraggiosamente messi in mare, ecco, lo avrei dovuto imparare molti anni fa, da un uomo da cui probabilmente ho imparato assai più cose di quelle che intendo confessare.
Ma che si scriva sempre e soltanto di terre sognate, immaginate, raccontate e forse anche dimenticate è qualcosa che abbiamo più o meno imparato tutti, o dovremmo averlo fatto: quando abbiamo pronunciato e stupefatti scandito la parola «Itaca», per esempio; o quando il nome «Macondo» ha iniziato in qualche modo ad esserci familiare; e magari anche quando ci è sembrato che il termine «Lisbona», appoggiato tra gli altri in mezzo alle righe scritte da Antnio Tabucchi, non fosse esattamente lo stessa Lisbona a cui ci collega due volte al giorno un volo Ryanair, benemerito, così più semplice da raggiungere di «Itaca».
E quindi non vi stupirete, lo immagino, se tra i libri che ho amato di più in questa porzione abbondante di 2019 che abbiamo alle spalle, c’è uno strano e prezioso libro (prezioso anche perché mi è stato regalato da due amici, preziosi pure loro) che si intitola L’atlante immaginario, e si sottotitola così: «Quando le mappe raccontavano sogni, miti e invenzioni». Dentro ci ho trovato storie di città inesistenti, di isole emerse e affondate, tutte false e tutte comunque segnate sulle cartine, tutte ripetutamente citate nelle storie di viaggio, quando la terra era misteriosa e gli uomini potevano immaginare un «oltre il mare» che fosse diverso dall’«al di qua del mare» che stancamente abitavano (oggi ci immaginiamo altri pianeti, mi sa; e mi sa che è esattamente la stessa cosa, mi sa; e sono pure contento che lo sia, mi pare bello).
Ed è, questo Atlante di luoghi mai esistiti, un libro del tipo che io preferisco, ormai, dopo tanti anni di storie e di romanzi: un libro che si legge aprendolo a caso, senza inizio e senza fine, saltabeccando, sfidando ogni volta la sorte di essersi imbattuti nel luogo immaginario giusto, quello che volevamo davvero immaginare, quello che oltre il mare aspettava noi. E vi può quindi capitare la splendida storia dell’isola immaginaria di Antilia, dove sette vescovi cristiani, sfuggiti alla conquista iberica degli arabi, si erano rifugiati costruendo una mitica e magnifica città dorata. Oppure la storia di Fusang, che rivelerebbe che i viaggiatori cinesi hanno scoperto il «mondo nuovo» ben prima di Cristoforo Colombo. Oppure, naturalmente, il regno del Prete Gianni, a Oriente dell’Oriente, luogo di un sacerdote guerriero capace di portare il Cristianesimo dove nessun altro uomo poteva mai arrivare.
E avanti ancora, in un libro bellissimo, illustrato da mappe bellissime. Che ci dice in fondo quello che dovevamo sapere già: che viviamo di «terre sognate», di linee di una costa per cui ci siamo imbarcati tanto tempo fa e che ancora non scorgiamo all’orizzonte; ma «con gli anni si misura la distanza», con gli anni forse si capiscono le cose…
E tra le cose che si capiscono, credo io, c’è che si appartiene a un luogo, mentre se ne sognano altri. E che nessuno, in tempi recenti, io credo davvero nessuno ha saputo dire questa cosa meglio di Cesare Pavese, che ha raccontato le Langhe e intanto ci raccontava casa nostra, come l’abbiamo amata e poi magari odiata e poi anche guardata stupiti, non lo so. Anche per questo ho voluto parlare oggi del mio Atlante immaginario: perché ho letto un bellissimo post su Cesare Pavese e sul suo romanzo La luna e i falò e ho pensato alle terre a cui si appartiene e a quelle di cui si va in cerca e mi è smembrato bello mettere insieme questi due libri così diversi. [C’era anche il Marco Polo raccontato da Italo Calvino, ma non volevo esagerare…]
L’Atlante immaginario, se vi piacesse, lo trovate qui; il post che parla di Pavese invece lo ha scritto Manuel Santangelo e lo trovate qui. A un certo punto dice queste parole:
A quasi sessant’anni di distanza la lente della provincia italiana non sembra essere cambiata: la provincia piemontese, ma anche emiliana, marchigiana, laziale o abruzzese, punta a rimanere sempre uguale a se stessa, almeno esteriormente. Quando si torna, dopo che il lavoro o un semplice viaggio ci hanno portati lontani, la sensazione straniante è quella di ritrovarsi a contemplare una commedia in cui a cambiare sono solo gli attori. La nuova generazione è cresciuta e ora sogna di andare, come quella precedente, mentre chi rimane si rassegna a fare quello che facevano i padri perché in fondo “L’America è già qui: ci sono i milionari e i morti di fame”. Questa Italia lontana dalle città, che vive a un suo ritmo e guarda con distacco a quello che succede al centro del mondo, conserva inevitabilmente le proprie specificità, ha un’identità forte che non soccombe neanche alle spinte più forti del cambiamento, cambia lentamente la forma ma la sostanza resta la stessa. La guerra è passata e i morti sono stati ridotti in cenere, nei falò, come capita alla bellissima doppiogiochista Santa, la figlia più piccola dei padroni di Anguilla. Quello che rimane di tutti quegli anni è solo polvere: neanche gli eventi epocali riescono a scalfire l’anima e le dinamiche di quei luoghi, che sopravvivono anche alla scomparsa di chi li ha abitati.
C’è insomma da rileggere La luna e i falò, se ancora ci piacciono i romanzi. Ma c’è comunque da tenere il nostro Atlante immaginario in un angolo ben in vista della nostra casa: per continuare a sognare le terre inesistenti a cui non potremo mai appartenere.