dalla parte della ragione
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oltre i fatti

Non c’è sempre bisogno di baffuti filosofi tedeschi o dell’ermeneutica contemporanea; a volte bastiamo noi, letterati di periferia e competenti medici cardiologi, per saperlo: parlare di «fatti» è bello, parlare di «storie vere» è rassicurante, ma quasi nulla, nei corridoi che quotidianamente frequentiamo, tra ospedali, scuole e ambulatori, si riduce a essere rassicurante e bello. E troppo i spesso i fatti non bastano a se stessi, e non bastano soprattutto a noi.

[Un giorno, per esempio, arriverà qualcuno e ci racconterà come ci è stata in questi mesi raccontata la pandemia: e scopriremo, quel giorno, speriamo presto, che non abbiamo proprio vissuto dentro la pandemia ma dentro il racconto della pandemia che ci stavamo da soli facendo, in diretta, tra una cascata di numeri e l’altra, tra un bollettino e l’altro, tra un comitato tecnico-scientifico e l’altro; e non so cos’altro, in effetti, quel giorno, scopriremo.]

Lo sapete dunque bene voi medici: una cosa è il fatto, un’altra cosa (ben più terribile, spesso) è saper comunicare il fatto al paziente, al figlio del paziente, al marito della paziente… E se cambia il fatto dovrà cambiare (anche a lasciar perdere filosofi e interpretazioni) la comunicazione del fatto. Su questo, tante volte, abbiamo trovato un terreno comune; su questo ci siamo detti tante volte che il medico non può fare a meno della lingua, della letteratura, delle storie inventate dei romanzi. E proprio a proposito di questo vi invito a oggi a leggere un post che parla di medicina, ma lo fa dalla parte della comunicazione di un fatto medico, attualissimo: i vaccini.

Il post (lo trovate qui) è stato scritto da Fabio Paglieri ed è piuttosto critico con la (non-)strategia di comunicazione che ha accompagnato la diffusione del vaccino Astrazeneca; è un post interessante, tanto per la storia recentissima che prova a riepilogare, quanto per i libri che invita a leggere (un bel consiglio di lettura è uno dei migliori regali che ci possiamo fare, sapete che lo penso da anni); e ha anche un bellissimo incipit, questo:

«Chi viaggia in aereo rischia di precipitare»: questa frase è fattualmente vera, e tuttavia parte di ciò che lascia intendere è decisamente falso. Nello specifico, il fatto che l’aereo sia un mezzo di trasporto particolarmente rischioso è falso, anzi, molto falso: da decenni i dati statistici confermano che motociclisti, pedoni, automobilisti, ciclisti, naviganti, e persino passeggeri di treni e autobus sono esposti a rischi, letali e non, ben maggiori di quelli affrontati da chiunque salga su un volo di linea. I molti modi in cui possiamo mentire dicendo la verità sono da tempo oggetto di studio in psicologia (C. Castelfranchi e I. Poggi, Bugie, finzioni, sotterfugi. Per una scienza dell’inganno, Carocci, 2002) e in pragmatica (E. Lombardi Vallauri, La lingua disonesta. Contenuti impliciti e strategie di persuasione, Il Mulino, 2019), dunque il meccanismo per cui un’affermazione vera può indurre credenze false è ben compreso: basta tacere informazioni necessarie a contestualizzare il dato, vero ma parziale, fornito dal messaggio esplicito, impedendone così la corretta decodifica.

Ecco, potete proseguire e vedere quanta parte di ragione riuscite a dare a Fabio Paglieri; io molta, per quel che ho visto (e anche per il vaccino che ho nel frattempo fatto, Astrazeneca appunto).

Ma ho anche già scritto che la scienza (e le sue suggestioni) è stata negli ultimi decenni non solo oggetto di comunicazione spesso approssimativa, ma acceso ingrediente anche della poesia. E fa quindi perfettamente al caso nostro il bel post che uno dei pochi blog ancora vivi (per fortuna, bravo!) ha scritto in questi giorni, a proposito delle curiosità scientifiche di un grande poeta americano, Robert Frost, e soprattutto di come tali curiosità, per lo più astronomiche, diventassero subito per lui materia poetica, plasmabile entro la scansione dei versi di una poesia. Leggete qui:

Per tutta la vita, Frost fu attratto dalla scienza, anche se con essa ebbe un rapporto di curiosa diffidenza, soprattutto verso la pretesa di spiegare anche ciò che esula dalle sue competenze e possibilità. Da ragazzo vendeva abbonamenti a riviste per potersi comprare un telescopio. Per qualche tempo si abbonò allo Scientific American. Trovava affascinanti gli scritti di Darwin sull’evoluzione. Quando insegnava letteratura all’Amherst College, conobbe il premio Nobel Niels Bohr che vi tenne due conferenze nel 1923 sulla struttura atomica e la fisica quantistica. Scrisse allora For once, then, something (“Per una volta, allora, qualcosa”) interpretando poeticamente l’evanescenza delle particelle atomiche, o della Verità stessa.

Sono considerazioni interessanti (le trovate tutte qui, nel post, insieme a bei versi di Robert Frost). E mi piacerebbe concludere le mie righe su questo punto, senza andare oltre e aggiungere altro. Ma non posso resistere.

Perché c’è un terzo post, del tutto impertinente, che devo segnalarvi oggi. Riguarda la scuola, cioè il mio lavoro, non il vostro, e dunque potete benissimo evitarlo. Dice cosa può succedere a un uomo che a 45 anni decida di fare l’insegnante, perché è ora di restituire quello che ha imparato come ricercatore universitario. Ma non è tanto il fatto, il punto; il punto, anche questa volta, è il come: come si decide che lui è in grado, come lui dimostra di essere in grado, come si può (volendo) arrivare davanti a una classe di studenti a insegnare loro letteratura italiana senza che il conoscere la letteratura italiana sia un requisito indispensabile per farlo.

Un giorno ti svegli, a 45 anni, e decidi che insegnare a scuola ti piacerebbe davvero, che pensi di avere molto da dare, di avere la passione e le competenze giuste, acquisite in anni di incontri, conferenze, lezioni, viaggi della memoria. Così ho cominciato ad informarmi, scoprendo subito una cosa che forse per molti è ovvia, ma non per me: pur avendo ottenuto l’Abilitazione Scientifica Nazionale, che mi abilita appunto all’insegnamento universitario, non posso insegnare nella scuola pubblica secondaria. Per farlo, ovvero per entrare in una “classe di concorso”, devo sostenere alcuni esami integrativi.

Proseguite, se avete voglia; magari vi rovina la domenica, a me l’ha già un po’ rovinata.

Davide Profumo
Davide Profumo
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