disegni del mondo
20 Agosto 2015
senza cuore
23 Agosto 2015
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L'INFARTOSorridere, nel leggere della storia di una malattia, è probabilmente lo stratagemma che più di ogni altra cosa aiuta ad affrontarla. Ci capita di trovare in libreria un libercolo siffatto, evidentemente scritto da un mio omonimo, che parla d’infarto, argomento che tutto sommato un briciolo mastichiamo. Nel libro (un libercolo, cos’altro?) si parla di malattia coronarica, di come non ammalarsene o, come recita il sottotitolo, “mal che vada sopravvivergli felici”. Si trovano le informazioni essenziali, chiare, raccontate con brio, a volte addirittura con allegria. Strano a crederci, ma se ne esce rincuorati, liberi dai luoghi comuni e dalle inutili ansie di chi, colpito al cuore, riceve ancor più danno allo spirito: cosa desiderare di più?

Ecco l’introduzione, e capirete che si tratta di roba da poco.

Cominciando con il cuore in mano

Dove l’Autore dichiara l’amore per la materia trattata e per il povero paziente, e dove il cuore si vuole custodito nel petto e le guerre si dimostrano germe per i futuri infarti.  

Quello che state per affrontare è un percorso facile e dalle solide fondamenta scientifiche. Per varie ragioni. La prima, e la principale, è che l’Autore ha i sacrosanti numeri per parlare del famoso infarto del miocardio. Ha infatti trascorso l’intera esistenza nella casa dove ogni infarto vorrebbe essere accolto, l’Unità Coronarica, e lì, difendendosi dal senso comune, se n’è fatto ciò che il buon senso definisce un’idea. Inoltre, e ciò non dovrebbe guastare, il suo spessore morale (suo dell’Autore, naturalmente, perché l’infarto altro non è che carne infarcita di sangue) garantisce che ogni cosa qui riportata, anche se falsa, è permeata dal desiderio di rendere felice chi felice non è più, e non lo sarà soltanto per poco.

La vita segna chiunque, segna i sani e segna i malati – questi ultimi di più –, ma i malati, se vispi come domineddio li ha fatti, dalla malattia possono cogliere ragioni di speranza, che quando splendevano di falsa salute nemmeno intuivano, gli sciocchi. Su questo si farà grande leva.

La seconda ragione, e l’ultima – di ragioni ne bastano poche –, è che l’Autore pensa che la vita vada ben al di là delle coronarie e dei battiti irregolari. Tanto che, nella spiegazione dei fatti, inserirà gli elementi scientifici (banali) nel mondo che li circonda (complesso), e ciò permetterà di descrivere la malattia e le sue soluzioni ancorandole alle abitudini dei malati, ai vezzi dei medici, alle bizzarrie degli infermieri, alle ansie dei familiari e all’idiozia dell’universo intero. Senza trascurare i curiosi comportamenti delle mogli, le mogli dei malati, s’intende.

Nel libretto altro non troverete che semplici consigli, imbeccatine, qualche innocente furberia, suggerimenti facili da tradurre in quel poco di penitenza che, come purtroppo insegnano, sostiene lo spirito di chi un pericolo sa di averlo corso. Grazie a Dio, leggendo ciò che avete in mano, avrete insomma modo di trarre un salutare respiro di sollievo. E chi non credesse in Lui, nell’Onnipotente, o lo credesse impegnato altrove, non ne faccia un dramma: sfogli le pagine del libro e abbia fiducia in chi scrive, che si è permesso di voltar le spalle alla fede, grande consolatrice dei devoti, per discutere la scienza, e di farlo proprio a conforto dei miscredenti; la scienza è un’esploratrice ribelle e, a modo suo, sa rincuorare chiunque, pio o eretico che sia.

Si parta dunque, e col cuore in mano!

Perché il cuore e perché in mano?

L’uomo è fondamentalmente uno stupido, e il cuore è spesso l’oggetto della sua stupidità. O meglio, lo è stato, e manca poco che non lo sia ancora.

L’uomo porta con sé il perenne desiderio di stupire, stupire sé e stupire gli altri, soprattutto coloro dai quali aspira ammirazione e consenso: gli dei, Dio e, a seguire, tutte le altre divinità, le sacre e le profane. Stupisci oggi, stupisci domani, l’uomo ne esce lui stesso istupidito, e non per nulla stupère per i latini era il verbo guida degli allocchi, gente che, a partire da colui che uscì per primo dal paradiso terrestre, rimane a bocca aperta, magari asciutta, senz’altro in braghe di tela e, chissà perché, anche col cuore in mano.

Nessuna fase della breve storia dell’umanità si è privata dell’infelice alleanza tra cuore e stupidità: i faraoni non venivano forse imbalsamati e completamente sviscerati, fatta eccezione per il cuore, che restava nella carcassa di Tutankhamon, perché Anubis lo trovasse più leggero di una piuma? Povero cuore, solo soletto in un torace impagliato. E più tardi, non furono gli aztechi a trasformare loschi figuri in sacerdoti sradicatori di muscoli cardiaci, muscoli che toglievano ai maschi (le femmine le decapitavano e morta lì) per offrirli agli dei perché sbalordissero di fronte a tanta crudeltà? Pur godendo della fama di grande civiltà precolombiana, furono proprio loro, gli aztechi, a inventare la storia del cuore in mano, un cuore vero però, il cuore di un povero cristo nato per essere sacrificato o giustiziato. Participi passati, questi, che la dicono lunga sulla remota idiozia dell’uomo (non della donna, che se ne stava zitta, allora): cuore, sacro e giustizia, da sempre protagonisti di riti tribali celebrati da fanatici con in mano muscoli sanguinolenti, tolti dal petto di chi non era neppure consenziente. Tanto che i non consenzienti cominciarono a ribellarsi e, di conseguenza, i cuori iniziarono a scarseggiare. Ecco pertanto che gli aztechi, sempre loro, si misero a far guerre al solo scopo di procurarsi cuori da donare agli dei, per propiziarseli. Ci sarebbe da chiedersi dove fossero, gli dei, e ancor più come si godessero lo spettacolo, ma per ora, ora che parliamo dell’uomo, limitiamoci a lui e ai suoi misfatti, e urliamo le parole del nostro stupore: robe da matti!

Matti esistiti da che mondo è mondo, da che cuore è cuore e da che nessuno dice niente di niente. Nemmeno degli ostrogoti, che innalzavano il cuore strappato dal petto del nemico e urlavano «Dio è con noi!», o degli unni, che sorseggiavano il sangue dai cuori ancora caldi degli avversari, dei vandali, che i cuori li bollivano, dei visigoti, che li essiccavano, degli alani, che li friggevano, dei mongoli, che li mangiavano crudi, e così via, nei secoli dei secoli, sino a Mengele, il dottor Mengele, che il cuore lo iniettava di cloroformio per farne omaggio al suo dio.

Barbari, nient’altro che barbari, gente che continuava a eleggere il cuore a simbolo della propria cretineria e che aveva in mente solo lui, il cuore, emblema (ed etimo) del proprio inutile coraggio, un coraggio dal quale, e solo per stupire il mondo, nacquero le guerre. Guerre che l’uomo ha sempre fatto, gettando involontariamente le basi dei moderni sacrifici cardiaci, gli infarti di cui andremo a parlare. Per sopravvivere in guerra bisognava infatti disporre di un sangue che facesse sostanziosi coaguli – termine tecnico trombi – e li creasse alla svelta, i trombi, perché il malcapitato non ne uscisse dissanguato: si salvava, e si riproduceva una volta tornato a casa, chi riusciva a tamponare al volo la ferita sanguinante. Siamo il prodotto di stirpi di grandi guerrieri, uomini forti, valorosi, violenti, prepotenti, irosi e soprattutto orgogliosi della loro facilità a coagulare. Oltre che naturalmente abili a coltivare un’inesauribile ottusità. E ora che le guerre si combattono ancora (l’avrete capito, l’uomo è stupido), e lo si fa schiacciando soltanto un bottone (è uno stupido istruito), il coagulo non aiuta, anzi. L’infarto, esito dei conflitti moderni, nasce proprio da un grumetto di sangue che chiude la coronaria, e… saluti e baci, magari qualche lacrima, ma niente più.

«Il cuore non ha retto», ho sentito dire a un congresso medico, dove cuore e cure si volevano distinti solo da una vocale persa per strada. È vero, «il cuore non ha retto» e, a dirla tutta, non ha nemmeno esofago, stomaco, duodeno e così via. A significare che la sua digestione è lenta, praticamente assente, e se lo si vuole eleggere a simbolo, lo si elegga pure, ma sia il simbolo dell’uomo stitico. Vale forse la pena combattere per questo? Beati i codardi, quindi, loro sì che, inneggiando alla coda, se la stringevano tra le gambe e, buoni, se ne stavano davanti al fuoco a raccontarsi storie. Se l’avessero capito gli antichi guerrieri, non avrebbero ammazzato i filosofi, che nel cuore alloggiavano l’anima, e non l’animosità, e oggi, di infarti, ce ne sarebbero molti meno.

La stupidità è indelebile, e il codice genetico ne è veicolo inconsapevole: vallo a spiegare alle cellule del sangue che non serve più, il supercoagulo, patetico eroe dei secoli bui. Vaglielo a dire, al coagulo, che siamo il prodotto della selezione che ha pescato tra un uomo più scemo dell’altro, gente con la spada da una parte e il cuore del nemico dall’altra, mani armate e, al contempo, omaggianti il Signore. I trombi chiudono le arterie ai suoi figlioli e l’Onnipotente che fa? Si accontenta di sbalordire i fedeli nel Duomo di Napoli, con un santo che smiracola sciogliendo un trombo, che poi è il suo trombo? Vi sembra possa bastare? C’è qualcosa che non va, non c’è dubbio, qualcosa che ora, per la pace del Signore e dei suoi figli abbandonati, andiamo a spiegare.

Come non dolersi del fatto che la selezione non abbia favorito i buoni, gli onesti, i generosi? Come dare torto a Kurt Vonnegut quando afferma: «Per quanto mi riguarda, la teoria dell’evoluzione può andare affanculo. Noi siamo un errore madornale». E poi prosegue: «L’evoluzione è veramente creativa e così ci siamo ritrovati con le giraffe».

Claudio Cuccia
Claudio Cuccia
Webmaster. Direttore del dipartimento cardiovascolare, Fondazione Poliambulanza Istituto Ospedaliero, Brescia

2 Comments

  1. Arrigo da Grumello ha detto:

    Per quanto mi riguarda la sola citazione che mi par adeguata a siffatta opra la traggo da frate Antonino da Scasazza che in “quelli della notte” all’udir qualche meraviglia esclamava: “Lodi, lodi, lodi!” E non era un padano! Ilare facezia e provvido sapere condensati in un libercolo, mica pizza e fichi!

    • Claudio ha detto:

      Caro Arrigo, Massimo Catalano avrebbe detto: “meglio guariti e sereni, che infartuati e depressi”. Aiutiamoli, i poveretti, che il nostro è un gran mestiere!

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