i ritagli di novembre
1 Dicembre 2017un disagio
5 Dicembre 2017All’inizio ho pensato che vi avrei parlato di questo libro che sto leggendo, che trovo molto interessante, scritto bene, argomentato in modo lucido, che è anche presentato qui, con una considerazione che va un po’ oltre lo spirito del libro, secondo me:
Se anche si può discutere su singole questioni, resta difficile, in definitiva, non vedere un legame forte tra lo smarrimento dell’Occidente − che si manifesta ora come relativismo etico, ora come crisi identitaria determinata dal crollo delle ideologie e/o delle religioni, ora come incapacità di reagire al terrore se non riconoscendosi sotto l’insegna superficiale di società del divertimento − e il ruolo sempre più marginale che è riservato alla cultura umanistica: quel bagaglio inutile a cui non si può fare a meno di rivolgersi quando ci si trova a investigare le eterne questioni: che cosa ci ha portati dove siamo, dove vorremmo andare, perché stiamo facendo tutto questo…
Poi invece mi sono detto che potevo anche parlare di sacro e di religione per una volta, anche se proprio non è il mio campo insomma, ma per una volta nessuno mi avrebbe detto niente, ho pensato. Soprattutto perché c’era questo incipit che mi è molto piaciuto:
Qual è la differenza tra un santo e un peccatore? – chiedeva talvolta Anthony De Mello. E, sorridendo, rispondeva: nessuna! Sono peccatori entrambi, solo che il santo lo sa. Passiamo gran parte della nostra vita addormentati, senza alcuna consapevolezza di quello che sta avvenendo intorno a noi e persino dentro di noi. Viviamo distratti, incapaci di dare un senso a quello che ci capita, un po’ per pigrizia, un po’ per paura di aprire gli occhi e restare delusi.
Ma c’era anche questo spunto (clic) che mi era piaciuto pure di più, che dice che la religione sta nel mondo, lo stesso mondo in cui dobbiamo infatti parcheggiare. Ma non è il caso, mi sono poi detto. Parliamo di lavoro piuttosto, è del lavoro che dobbiamo parlare, è il lavoro che va messo al centro anche della letteratura, soprattutto della letteratura, essenzialmente della letteratura. E c’è uno scrittore contemporaneo italiano che più di ogni altro, secondo me, sta parlando in modo acuto del lavoro e del (non) significato che il lavoro ha oggi, nei nostri tempi, per gli esseri umani che siamo noi, adesso. Lo scrittore è Giorgio Falco e il suo ultimo libro, Ipotesi di una sconfitta, è raccontato con queste parole, che gli rendono giustizia:
Dopo l’esordio narrativo di Pausa caffè (2004), considerato uno degli esempi migliori di narrativa sul precariato, in Ipotesi di una sconfitta Falco torna, dunque, a confrontarsi con il lavoro determinando un cambiamento sostanziale nella rappresentazione di questo tema: dalla solipsistica testimonianza dell’instabilità e della flessibilità si passa infatti ad estesi memoir dove l’autobiografia professionale diviene anche autobiografia di una nazione in decrescita. Infatti se nella prima «raccolta di sessantanove piccole atrocità» ogni lavoratore «parlava per conto proprio, senza passato e senza futuro, solo nel presente tambureggiante» (p.268), nell’ultimo libro la narrazione di Falco diventa corale e sembra assommare su di sé tutte queste voci, la loro solitudine, il loro senso di impotenza e di frustrazione.
Ma subito dopo mi sono anche detto che però, forse, c’è questo luogo di cui già altre volte ho parlato, questo luogo particolare che sta nascosto in uno spigolo strano d’Italia, il Sulcis, con le sue miniere di carbone scure, il mare azzurro, le spiagge bianche, questo luogo in Sardegna parla di lavoro meglio di ogni altra parola… Ecco, ho pensato, parlerò del Sulcis, oggi, delle storie che questo post così sinteticamente racconta, del lavoro in questo spigolo di Sardegna, l’isola delle vacanze, il Sulcis, un luogo allegorico più di molti altri sempre vanamente raccontati, mi pare bello e giusto, lo farò, citerò questa frase:
E’ duro entrare con il buio, alla mattina presto, ed uscire dalla miniera dopo un turno di straordinario, che è ancora buio, entrando in una dimensione fatta di oscurità; è duro il ricordo di un incidente sul lavoro nel quale hai perso un compagno. E’ duro anche il paesaggio, e aspro. Da qualsiasi parte del territorio è possibile vedere una miniera. E così anche gli uomini e le donne diventano duri, le mascelle, gli zigomi, gli occhi sono duri. Anche se leggermente lucidi come in uno stato di febbrile dominazione dei sentimenti. Un sorriso di un minatore vale come un sentimento o un giuramento.
Ma no, insomma, non è il caso, ho pensato che non era il caso. Meglio restare incatenato alla letteratura, ho deciso alla fine. Parlare del romanzo come forma del racconto degli ultimi secoli, del perché il romanzo lo sia diventato, di che cosa sia la sua forma, il suo ostinato realismo, che cosa racconti di noi anche senza che ne apriamo uno, di romanzo, perché il romanzo sì e il poema no, per esempio. E c’era questo libro di Berardinelli a venirmi in soccorso, sarebbe stato quasi perfetto, contro ogni don Chisciotte di ogni tempo:
Non basta – spiega Berardinelli – che la storia narrata sia avvincente, con meccanismi narrativi ben congegnati atti a incatenare l’attenzione del lettore. L’elemento umano deve conservare un rapporto diretto con la realtà […] partendo proprio dal “Cavaliere errante” Don Chisciotte, figura romanzesca fondante l’intero sistema, il quale con i suoi valori cavallereschi si trova a confliggere con una realtà tutt’affatto diversa, prosaica, ormai svuotata di quegli ideali libreschi. Nel libro di Cervantes il lettore tende a identificarsi piuttosto con il deuteragonista, lo scudiero Sancio, «con il suo senso comune e i suoi proverbi», che con il protagonista, che vive soltanto della sua «realtà immaginaria».
E invece niente di tutto questo, non c’era verso, non stamattina, nessun tema pareva essenziale, niente riempiva il vuoto delle ore che stanno davanti, nessun inizio, nessun argomento nessuna citazione nessun post nessun luogo nessun parcheggio restituiva il senso di un percorso che valesse la pena di essere compiuto. E mi è restata (come spesso) solo qualche brevissima poesia, anche oggi, come altre volte, in altri vuoti. Sono tratte dal nuovo libro di Andrea Bajani, credo di averne già parlato, è il libro di poesie che tengo sul comodino in questi giorni, in queste notti, mi piace mi fa compagnia mi mette allegria e tristezza mi toglie sonno e mi addomenta. Una serie di promemoria per le giornate che si susseguono lasciando sapori strani in bocca, direi. Tra i quali promemoria avrei scelto questi due, che parlano infatti di parole, se non siete arrivati fin quaggiù troppo stanchi:
27.
Aprire le gabbie togliere le virgole
allontanare tutti i punti sparare
in aria lasciar scappare le parole
nella notte sentirle abbaiare nei
dintorni la mattina sentirle rientrare
da sole le parole non ci sanno stare
fare la conta di quelle non rientrate
chiudere le gabbie sentirle ringhiare
47
Mettersi tra due parole, separarle
con il corpo: allargare le braccia
e intanto urlare. Rompere il senso
della frase. Non spaventarsi se fa
male. Dopo tornare carta straccia.