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Non fu vano? (su Mario Luzi)

Il 20 ottobre 2014, esattamente 100 anni fa, nacque a Castello di Firenze Mario Luzi. Sarebbe cresciuto (per fortuna) e diventato uno dei maggiori poeti del Novecento italiano ed europeo. Oggi, sui giornali in edicola, lo ricordano in molti. E anche sul web sono comparsi alcuni bei ritratti di un poeta che è stato sempre più citato che letto. Scrive, per esempio, Roberto Russo:

 

Con una intatta fede nella parola poetica, capace di salvare dalla disperazione di un mondo uscito dal dramma della guerra, Luzi ha sempre più fatto della poesia un dialogo con gli uomini e uno strumenti per interrogare. Nel corso del tempo il suo stile è divenuto sempre più narrativo, fino a raggiungere un calore nuovo che lo ha portato a un cristiano amore degli uomini e della vita, pur nella consapevolezza del significato tragico dell’esistenza.

 

E mentre Raoul Bruni ci ricorda alcuni tra gli appuntamenti e le pubblicazioni  relativi a questo centenario (tra cui una mostra a Pienza che, se non abitassi così lontano, andrei senz’altro a vedere), Milo De Angelis, che è un poeta anche lui, scrive parole bellissime:

 

Luzi non è un autore tragico. Non è un autore del nulla o della caduta nel vuoto. Ma è un autore inquieto, profondamente inquieto. Forse è per eccellenza il poeta novecentesco dell’inquietudine. In lui tutto è mobile, instabile, mercuriale, connesso a una metamorfosi incessante. La sua stessa opera lo testimonia. Ogni libro costituisce una svolta. Nessun libro di Luzi è la continuazione del precedente, nessuno vive di rendita sullo stile e sulle invenzioni del precedente.

L’altro. Ecco un termine chiave della poetica luziana. […]“L’io è ciò di cui un altro detiene il segreto”, ricordo bene questa frase, la prima volta che sono andato a trovare Mario Luzi in via di Bellariva. “E’ un altro che decide, sempre un altro”. Non siamo padroni in casa nostra. Non siamo auto-nomi. Non possiamo darci da soli il nomos, non possiamo darci da soli la legge, non possiamo essere giudici e giudicati, dipendiamo da una legge più grande, che esiste prima di noi, da una verità che è illusorio cercare in noi stessi. La verità, scrive Luzi, appartiene all’incontro. L’io è ciò di cui un altro detiene il segreto. Non possiamo conoscerci al di fuori dello sguardo altrui. Dipendiamo da lui. Abbiamo bisogno di lui per sapere qualcosa di noi. Non siamo isolati. Soli, forse, ma non isolati. Nemmeno in uno specchio siamo a tu per tu con noi stessi. In uno specchio non ci si vede, ma ci si vede visti. Anche lì si annida lo sguardo dell’altro. Per Luzi si direbbe che il due preceda l’ uno e lo fondi, che ciascuno di noi possa esistere solo nell’incontro e nel dialogo. Il due precede l’uno. L’uno procede dal due.

Eppure ci sono momenti in cui né lo sguardo né la parola possono davvero giungere all’altro, valicare le sue mura, le roccaforti e i fossati che egli adopera per difendersi. Allora l’altro diventa, drammaticamente, inespugnabile. E noi siamo riportati alla nostra solitudine e a nostra volta ci proteggiamo dalla luce sconosciuta della vita e ci rinchiudiamo in un dolore senza sbocco e senza uscita.

 

Sono parole splendide, che proseguono di là, sul sito di «Nuovi Argomenti». Io vi consegno a loro, ma non senza permettermi di lasciare anche qui, come minima celebrazione del centenario, una delle poesie che più ho amato di Mario Luzi. Si intitola Nell’imminenza dei quarant’anni e dice così:

 

Il pensiero m’insegue in questo borgo

cupo ove corre un vento d’altipiano

e il tuffo del rondone taglia il filo

sottile in lontananza dei monti.

 

Sono tra poco quarant’anni d’ansia,

d’uggia, d’ilarità improvvise, rapide

com’è rapida a marzo la ventata

che sparge luce e pioggia, son gli indugi,

lo strappo a mani tese dai miei cari,

dai miei luoghi, abitudini di anni

rotte a un tratto che devo ora comprendere.

L’albero di dolore scuote i rami…

 

Si sollevano gli anni alle mie spalle

a sciami. Non fu vano, è questa l’opera

che si compie ciascuno e tutti insieme

i vivi i morti, penetrare il mondo

opaco lungo vie chiare e cunicoli

fitti d’incontri effimeri e di perdite

o d’amore in amore o in uno solo

di padre in figlio fino a che sia limpido.

 

E detto questo posso incamminarmi

spedito tra l’eterna compresenza

del tutto nella vita nella morte,

sparire nella polvere o nel fuoco

se il fuoco oltre la fiamma dura ancora.

Davide Profumo
Davide Profumo
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