Omecamtiv mecarbil nel trattamento dello scompenso in fase acuta
23 Maggio 2016Aggiornamenti sul Congresso ATBV 2016
26 Maggio 2016Tra i luoghi che parlano di noi («noi», starei per dire, mediterranei, o semplicemente italiani, o meglio ancora europei, non lo so… Un «noi» che in parte senz’altro mi sfugge, un «noi» sfumatissimo e magari inesistente, o forse un «noi» semplicemente privo di confini, ma un «noi» ma che riconosco appena vedo uno di noi, per l’appunto, e sento che siamo la stessa terra e la stessa aria, non so come, sullo stesso vanissimo pianeta), quello che negli ultimi anni mi ha più interessato, e contemporaneamente angosciato, sono i Balcani, non so perché (o forse in verità so benissimo il perché, ma è un perché così personale che non vale la pena di essere detto). I Balcani mi sembrano «noi», sempre di più, il vero centro dell’Europa, proprio perché così periferico per tante ragioni, il luogo attraverso cui, metaforicamente, dobbiamo tutti passare (anche i migranti ultimamente…) per essere davvero e semplicemente «noi».
Così non mi dispiace consigliarvi oggi un lungo ma intenso post scritto da Milena Pavlovic sul fenomeno che fu lo sport in Jugoslavia, quando quel paese ancora era un paese e non era quello che noi ci siamo abituati a chiamare ex Jugoslavia, un ex paese. Il post parte da lontano (come tutte le cose abbastanza intelligenti…)e a un certo punto arriva a dire questa cosa qui, che mi ha stupito e contemporaneamente un po’ raggelato:
I palazzetti sportivi, gli stadi, i campi: come sono diventati il trampolino di lancio della politica nazionale e nazionalista? La Jugoslavia costituisce un valido esempio di questo processo. L’antropologo Ivan Čolović si è interessato alla genesi della metamorfosi nazionalista della società jugoslava durante il decennio ’80-’90, ritrovando principalmente nella produzione culturale serba e croata una progressiva trasformazione degli altri in nemici. “Quando il popolo si definisce sul piano etnico”, scrive Čolović, “coloro che appartengono ad altri gruppi etnici diventano facilmente degli avversari e dei nemici”.
Ecco, si intitola splendidamente Una volta jugoslavi e potete leggerlo tutto se vi va. E qualora vi piacesse potreste pure associargli due altri post più brevi ma non dissimili nella sostanza, che ha scritto un giovane italiano di origine bosniaca di cui ho il piacere di essere amico (il primo è sull’Hajduk di Spalato, il secondo sulla Stella Rossa di Belgrado).
Se invece eravate, un po’ più comodamente, alla ricerca di qualcosa che riguardasse più da vicino il mondo al di qua dell’Adriatico, così «noi» come esso è, vi consiglio di riflettere su quanto ha scritto ieri Massimo Mantellini a proposito di un’infermiera che già era stata da tutti additata come assassina, e che forse invece… Mantellini ne trae alcune importanti considerazioni sui giornali e il mestiere dei giornalisti, tristi assai ma necessarie:
Il formato digitale ha aggiunto velocità e quantità, alleggerendo sempre di più la responsabilità oggettiva del mediatore, i suoi spazi interpretativi, il tempo che il giornalista può dedicare ad un articolo, il peso delle sue parole. Così è accaduto che l’informazione si sia trasformata in un ipertesto, anche quando viene portata su un foglio di carta. Esattamente come accade nelle pagine web il link offerto ai propri lettori difficilmente comporta grandi assunzioni di responsabilità: è pura notizia, cronaca perfino obbligatoria: potevamo non informarvi sul caso dell’infermiera killer? Non potevamo. Potevate, invece. Potevate aspettare, utilizzare toni meno definitivi, titoli meno diretti, farvi un’idea personale. Potevate, sarebbe stato il vostro mestiere, ma non lo avete fatto.
E infine, se eravate ancora più comodamente alla ricerca di un libro da leggere entro la fine del mese di maggio, ecco, mi pare che la leggerezza di Marco Rossari possa fare per voi. Vi si parla di malattie che sono però letterarie, di sintomi che nascono dai libri, di medicine inutili che stanno però tra le pagine degli scrittori. Lo trovate presentato qui, e forse vi verrà voglia di cercarlo in libreria:
La letteratura, si sa, è una malattia che si contrae nell’infanzia: il suo primo sintomo è la lettura, poi, il più delle volte, se non curato adeguatamente, il malessere prende piede con un desiderio di leggere sempre di più e infine degenera con un’insana voglia di provare a scrivere. A quel punto, nulla potrà più fermare il malato…