come Ettore a Troia
12 Maggio 2019presenti parole passate
19 Maggio 2019Chi è questo scrittore, cosa fa questo scrittore, da dove viene e dove mi vuole portare questo scrittore, come pensa a se stesso questo scrittore, e come pensa a me, lettore che lo leggo, questo scrittore? A volte me le faccio ancora, queste domande, a volte mi capita. E forse capita pure a voi, vi capita di chiedervelo, visto che siete qui, leggete qui, e questo significa che anche voi appartenete alla schiera pallida di coloro che ogni tanto prendono in mano un libro e sperano ancora di trovarci dentro qualcosa, che ne so, una risposta, anche parziale, una traccia, un’orma vaga da seguire… Anche se sanno che un libro è solo un libro, niente di più, e uno scrittore è solo uno scrittore, che «non ha nessuna carta miracolosa», è uno come noi, niente di più, «al massimo col vantaggio che recita / tutta vera la sua paura».
Ma so (e oggi lo so anche un po’ meglio) che capita ogni tanto di trovare (in un libro, su un giornale, o anche sul web) qualche parola che assomiglia a una risposta verosimile a queste domande superflue (si trova davvero di tutto, per le strade del mondo e nei motori di ricerca); qualche parola che getta un minimo di luce su questo continuo sforzo che facciamo di imparare i nomi degli scrittori e di leggere i libri, per cercare qualcosa che non si trova in altre azioni, in altri luoghi.
Oggi, per esempio, ho letto il post breve e molto bello scritto da Sandro Campani e ho pensato che diceva bene alcune delle cose che confusamente avevo sempre cercato di pensare, ogni volta che aprivo un libro con la speranza di trovarci dentro qualcosa, chissà che cosa. E mi ha anche un po’ commosso il fatto di non avere la più pallida idea di chi fosse Sandro Campani, che pure (ho scoperto dopo, cercando sul motore di ricerca che tuto dice, di noi e di altri) è scrittore di romanzi pubblicati da importanti editori italiani. Ma è bello essersene sorpresi, rende la lettura ancora più preziosa. Di questo passo, per esempio:
Scrivere è l’unico modo che io abbia per tentare un ordine alle cose, ed essere sicuro che i volti non spariscano dov’è troppo tardi per tornare a rivederli. Vorrei trattenere quei volti scrivendo. Ma quando cerco di farlo, capisco che niente ha valore se non lascio che le cose diventino diverse da come io le ricordavo. Il volto di qualcuno che io amavo assume le cicatrici di un altro, gli amici si scambiano i nasi, o il modo di muovere le mani. Le parole che ci siamo detti non sono le nostre parole, ma quelle di due sconosciuti che ho sentito l’altro giorno in un negozio. Devo travisare le cose per renderle più veritiere.
Oppure di quest’altro:
Non potrei mai pensare di scrivere per esprimere me stesso. Non penso di aver niente di speciale da dire, né penso che la mia esistenza abbia alcunché di necessario, tanto da dover essere espresso: uso ciò che ho visto o ciò che mi è successo come serbatoio da cui pescare fatti che mi sembrino utili a una storia, magari travisati, ribaltati; ma sono sempre rivolto all’infuori, quando scrivo; e nell’esser rivolto all’infuori, è come se avessi un dentro diverso: più cosciente, più intuitivo.
Mi paiono considerazioni acute e intelligenti; mi aiutano a pensare al prossimo libro che leggerò, domani o dopodomani e vi suggerisco quindi l’intero articolo, che è davvero interessante e merita più di qualche minuto, se lo avete. Ma c’è un altro consiglio che mi sento di darvi, se siete tra coloro che ai libri dedicano ancora un po’ di attenzione. Non si tratta di uno scrittore, questa volta, ma di un lettore. Che come tutti i lettori, cioè come noi, è anonimo, non ha nome né cognome. Il che lo rende assai diverso da qualsiasi scrittore che è poco di più del suo nome e cognome, o che almeno questo dovrebbe essere (ma in tempi festival e di saloni e di presentazioni di libri frequenti come gocce di pioggia, però, finisce che si conosce la faccia dello scrittore più delle parole che ha scritto, e questo è un grande male, lasciate che lo dica).
Questo lettore anonimo (e giovanissimo, ci viene fatto sapere) ha scritto una lettera in cui trovo parole che vanno bene, secondo me, per tutti noi lettori. Come se l’anonimato fosse garanzia di collettivo, non avere un nome per averli tutti, i nostri nomi, quando leggiamo i libri. Ha scritto così, l’anonimo; ha scritto che è stanco di trovare gli scrittori, dentro i libri, che vuole trovarci se stesso, dentro i libri che compra. Ha scritto così:
Nel retro di copertina, cari scrittori, non vogliamo le vostre facce, le vostre barbe da intellettuali, o le vostre chiome sensuali. Non sappiamo che farcene. Noi vogliamo la nostra faccia rappresentata nel libro, la nostra anima, chi siamo e chi saremo. Vogliamo che ci rappresentiate. Se volete, è una sorta di voto di scambio: noi compriamo la possibilità di essere rappresentati in un grande parlamento […] E voi, uomini e donne dalla dura cervice, vi chiederete cosa vogliamo di preciso in un libro, poiché probabilmente non l’avete ancora compreso. Non abbiatene vergogna, noi lettori siamo pazienti, altrimenti ci saremmo già fermati agli incipit dei vostri romanzi, e non saremmo stati in grado di leggere oltre la prima pagina. Cosa vogliamo allora? La vita. Niente di più che la vita. Questa cosa un po’ tragica, contraddittoria, questa materia che brucia e che non riuscite a toccare senza mettervi i guanti, questo istinto insaziabile che non si lascia governare dalle redini della vostra scrittura. Questa cosa che vi fa paura, e di cui non c’è traccia nelle vostre opere…
C’è molta triste ragione nelle righe di questo giovane anonimo lettore, che ci rappresenta, o che almeno rappresenta la mia stanchezza di fronte a molte cose del mondo dei libri di oggi. Ma che ancora racconta la speranza che abbiamo ogni volta che prendiamo in mano un libro e speriamo di trovarci dentro qualcosa, che ne so, una risposta, anche parziale, una traccia, un’orma vaga da seguire… Anche se sappiamo, oggi come sempre, che un libro è solo un libro, niente di più, e uno scrittore è solo uno scrittore, che «non ha nessuna carta miracolosa», è uno come noi, niente di più, «al massimo col vantaggio che recita / tutta vera la sua paura».