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5 Maggio 2015Approfitto come di consueto della domenica (che si annuncia assai grigia) per indulgere un poco alla letteratura e alle metafore che inevitabilmente ne sono l’essenza, anche in questa sede così poco pertinente. E pertanto vi propongo (è una lettura lunga, vi terrà compagnia per un po’…) il resoconto del bellissimo incontro tra due scrittori, che non so se definire grandi ma che certo stanno lasciando molte parole interessanti nel loro terreno passaggio. Gli scrittori sono Niocola Lagioia (di cui già abbiamo avuto modo di parlar bene) e Aldo Busi; e l’incontro è invece un piccolo florilegio di sottili metafore quotidiane e paesane, oltre che uno spaccato di vita della provincia bresciana, il che (chi mi conosce lo può immaginare) me lo ha reso ancora più caro. E infatti inizia così:
“Tre ore di treno fino a Verona…”.
“Cambio per Desenzano, da Desenzano in taxi fin…”.
“Ecco. Ma chi gliel’ha fatto fare?”.
Prendo un respiro. Penso che togliere le zavorre a un’iperbole è l’unico modo per scoprire se era una verità in maschera. Lo dico.
“Venirla a trovare a Montichiari è come essere andati a Londra per incontrare Dickens”.
“Con la differenza che da queste parti ci sono molti meno poveri”.
Aldo Busi sorride soavemente e scalda il caffè che aveva preparato – mi rendo conto – ponderando al centesimo il mio arrivo, e infatti (calcolo a mia volta quando la fiamma si abbassa) avrebbe smesso di gorgogliare a pochi istanti dal mio indice sul campanello se il tassista non avesse sbagliato strada nel tragitto.
In effetti con un Ryanair da Ciampino sarei arrivato al London city airport nella metà del tempo. Ma a quel punto – mostra di Alexander McQueen al Victoria and Albert museum a parte – che senso avrebbe avuto la giornata? Nessuno scrittore inglese oggi (Julian Barnes? Martin Amis?) sarebbe per me interessante quanto Busi.
L’esterofilia è il cancro del provincialismo, anche se metropolitano…
Però, visto che siamo ormai qui immersi nelle metafore letterarie e non si vede il motivo per cui dovremmo volerne uscire alla svelta, permettemi un ulteriore gradino lungo le scale della vostra pazienza medica. Avrete, credo in molti, letto o addirittura visto l’esemplare e splendida scenetta della mamma di Baltimora che è andata a recuperare il figlio nella manifestazione violenta che si stava consumando nelle strade di quella lontana città (se non lo avete fatto, rimediate: è qui). È una scena gustosamente pedagogica, che proprio in questi giorni di manifestazioni italiane ci può dire molto di quello che vale la pena di fare davanti a certi comportamenti. E però, anche se l’ho apprezzata e citata continuamente in questi giorni, non basta. O almeno non basta la mamma. E per fortuna, vorrei dire, c’è la letteratura, cioè la capacità di raccontare il mondo a partire da uno sguardo o da una metafora o da quello che di uno sguardo riusciamo metaforicamente a immaginarci. E la metafora non è soltanto la mamma (questa volta: non deve esserlo) ma anche lo sguardo del figlio. E un po’ di letteratura la troviamo anche sul web, questa volta, grazie alla tastiera (non si dice più la penna…) di Francesco Cundari, che ha (citando nel suo titolo un grande poeta, mica per caso) acutissimamente scritto così:
Intendiamoci: non voglio togliere nulla a questa bellissima storia della mamma di Baltimora che riconosce il figlio dalle immagini degli scontri con la polizia trasmesse dalla tv, esce in strada e lo tira fuori di lì, letteralmente, a ceffoni. E’ ovvio che si tratta di una storia bellissima, che l’immagine, la voce, le urla, i gesti di quella mamma hanno qualcosa di universale, qualcosa di familiare per ognuno di noi […] È bellissimo che in tanti, in America e ovunque nel mondo, si siano identificati con quella madre. Il punto, però, è proprio questo. Guardate la foto. Guardate la faccia di quel ragazzo di sedici anni che è stato appena trascinato via dal gruppo a suon di sberle, sgridato e schiaffeggiato dalla mamma, davanti a tutti.
Se poi invece la letteratura non vi bastasse (è un problema vostro, però, sappiatelo…) e davvero foste interessati all’idea che io personalmente mi sono fatto sugli scontri (tanto di Baltimora quanto di Milano) ecco, perdonatemi se vi mando sempre negli stessi luoghi virtuali, ma il mio pensiero coincide più o meno con quello espresso qui, che inizia con queste parole:
Vivo a due passi da Expo; e che i suoi lavori, ciò che li ha guidati, in alcuni casi ciò che li ha motivati in origine non fossero di gradimento di molta gente, per usare un eufemismo, è una cosa che so bene. Per dire, io e tutti quelli che vivono nella manciata di vie che costruisce il mio quartiere abbiamo visto per nove mesi dodici poliziotti comandati a presidiare ventiquattro ore su ventiquattro i cantieri delle vie d’acqua proprio perché quello era un lavoro preso a simbolo di tutto ciò che di questa manifestazione non andava a genio a tanta gente. Ci sta, non si può essere tutti d’accordo…
2 Comments
Massimo Adinolfi non è per caso Francesco Cundari?
Lo è infatti (grazie, ho corretto)