uomini e parole, ma nessun libro
23 Aprile 2015immagini del mondo
29 Aprile 2015Non è l’unico, senz’altro, ma uno dei modi per rievocare i settant’anni dalla liberazione del 25 aprile 1945, in termini di letteratura e cultura (e magari con un po’ meno di retorica, anche), sarà indubbiamente quello di riprendere a leggere e a occuparci dei romanzi e dei racconti di Beppe Fenoglio, i più belli tra quelli scritti sugli anni 1943-45 in Italia e che stiamo invece rischiando colpevolmente di dimenticare. E magari si può provare a farlo ripartendo dalla meritoria opera di restauro filologico che ne è stata fatta grazie al lavoro di Gabriele Pedullà, e che ho trovato presentata qui, in questi termini:
Esce in questi giorni, per Einaudi, Il libro di Johnny di Beppe Fenoglio, un’edizione radicalmente nuova del più importante romanzo sulla Resistenza italiana. In un primo momento Fenoglio aveva ideato un’unica grande storia che aveva come protagonista Johnny. Partiva dagli anni del liceo ad Alba e proseguiva con il corso ufficiali, l’8 settembre, il ritorno in Piemonte, l’adesione alla guerra partigiana, il passaggio dai garibaldini ai badogliani. Poi, su indicazioni editoriali, riscrisse la prima parte di questo progetto trasformando Primavera di bellezza in un libro autonomo: tagliò le prime ottanta pagine e aggiunse tre capitoli finali facendo morire Johnny al primo scontro a fuoco. La seconda parte, riscritta più volte, fu recuperata postuma col titolo Il partigiano Johnny. In questa edizione Gabriele Pedullà ricostruisce la struttura del grande romanzo così come Fenoglio lo aveva pensato.
È un’occasione per leggere il «più importante romanzo sulla Resistenza italiana», se ne avete voglia. Oppure, se ne avevate già avuto voglia in passato, per rileggerlo in una vesta testuale forse più vicina alle intenzioni del suo autore. Il quale, come dice Pedullà, fece non poco per confondere le carte degli studiosi a venire:
Nei suoi quarantuno anni di vita Beppe Fenoglio sembra essere riuscito a inanellare uno dopo l’altro quasi tutti gli errori che, nei casi piú sfortunati, accompagnano i primi passi dei giovani scrittori nel mondo dell’editoria: ha firmato distrattamente contratti di esclusiva con due distinte case editrici allo stesso tempo; non ha protetto abbastanza i propri dattiloscritti dalle inevitabili richieste di «normalizzazione», salvo poi far seguire a questi eccessi di condiscendenza lunghi silenzi e opporre rifiuti sdegnosi a richieste assai piú ragionevoli, con il risultato – sí, è successo anche questo – che la sua insicurezza e il suo riserbo sono stati qualche volta scambiati per una singolare forma di superbia.
Ma se invece non avete tempo di fare nessuna delle due cose di cui sopra, be’, allora prendetevi soltanto pochi minuti e leggetevi piuttosto l’articolo scritto da Eva Moses Kor, una sopravvissuta ad Auschwitz. È interessante, quasi commovente, sicuramente degno di più di una riflessione; e chiude molte discussioni che chissà perché, come le porte al nostro passaggio, amiamo lasciare aperte. Si intitola Perché stringere la mano a un nazista e inizia così:
Una delle ragioni per le quali ho voluto stringere la mano a Oskar Groening è stata perché il nostro primo incontro non era andato molto bene. Nel primo giorno del suo processo, mi presentai e gli porsi la mano per stringergliela. Allora accadde una cosa strana: stava cercando di dire qualcosa sedendosi di sbieco sulla sedia quando sbiancò e cadde all’indietro, senza dire una parola. Si era aggrappato al mio braccio, e per questo non cadde per terra. In quel momento, non era più un nazista ma solamente un uomo anziano che aveva avuto un malore, e che io stavo cercando di tenere in piedi. Urlai che non ce la facevo a reggere il suo peso. Ma questa non era l’interazione che speravo di ottenere. Avevo fatto svenire un vecchio nazista…