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medicine

Raccontarci è, mi pare, la medicina più potente che consociamo, che dovremmo usare. A volte anche solo, nel silenzio, raccontare noi stessi a noi stessi (sebbene, nel silenzio e nel buio, lo sappiamo, le bugie si moltiplichino, proliferino, rischino di diventare una medicina di cui abusiamo e quindi un veleno e quindi eccetera… tutte cose che voi medici sapete fin troppo bene).

Per raccontarci abbiamo in verità bisogno dell’altro, che ci ascolti e che magari si racconti a sua volta: la medicina è anche riconoscersi entro il racconto altrui, nelle parole dell’altro. E il racconto altrui è, più o meno sempre, letteratura, anche quando si traveste da relazione fredda, da trattato scientifico, da incomprensibile lettera di dimissioni, da quello che vorrebbe fingere di essere: mentre rimane per lo più letteratura.

Ho pensato queste poche e banali cose, in questi giorni, leggendo due articoli che oggi mi permetto di segnalarvi, perché mi pare che aiutino me (e forse anche voi medici e magari qualcun altro) nei giorni di lavoro che ci aspettano, tra scuola, letti di ospedale, sofferenze taciute di studenti e di pazienti.

Il primo parla di giovinezza e di uno degli scrittori che ha saputo meglio raccontarla, almeno nel paludatissimo panorama della narrativa italiana di qualche decennio fa. Si chiamava Pier Vittorio Tondelli e lo abbiamo perduto un po’ troppo presto. Ma i suoi libri (io ho una predilezione personale per Camere separate, ma non è così rilevante) ci restano a testimonianza di una scrittura che sa ancora, appunto, raccontarci la sofferenza.

Trovate qui un suo bel ritratto, fresco e limpido ma appuntito. Lo ha scritto Marco Rossari, che è anche lui voce narrativa di tutto rispetto (ne avevamo già parlato, anche di lui, qui) e lo ha scritto volendo soprattutto parlare di quanto si soffra a essere giovani, di cosa sia la giovinezza, e di come Tondelli fu la voce di una diffusa sofferenza giovanile e anche altro:

In Tondelli c’era qualcos’altro, non solo il giovanilismo. Forse un tentativo di abbraccio, di fuga da una solitudine dove poi tornava a rifugiarsi, in una omosessualità che senza una coppia vera e propria lui cercava di vivere come normalità. Oggi farebbe impressione sentire dire: “Io penso che l’omosessualità non sia un problema se non per quelli che proprio vogliono che lo sia. Non se ne uscirà mai se si passa il tempo a spiegarla!”. Diventa forse il primo scrittore a parlarne in modo piano, pacificato, sentimentale, al di fuori dei tormenti sacrali dei Pasolini-Testori e delle gioie sfrontate degli Arbasino-Busi.

E poi c’è un altro post, molto più medico, che mi lasciato molti pensieri e che tengo molto a segnalarvi. Lo ha scritto lo psicoterapeuta Giuliano Castigliego e dice una cosa che forse non ho mai saputo scrivere in modo così netto e preciso ma che riassume in modo chirurgico il senso del mio essere qui, da anni, a scrivere di libri e di poesie su un sito di cardiologi. Questa cosa:

il medico è la medicina

Ecco, ve lo lascio con grande speranza, questo post che parla di sofferenza psichica e racconta rapidamente la storia di una carriera in psichiatria, passata ad ascoltare il racconto delle sofferenze degli uomini. È davvero superfluo che lo commenti io, che sono un semplice lettore di libri.

Ma parla di sofferenza, raccontata e ascoltata, dice la necessità che abbiamo di trovare parole che siano medicine, il bisogno intimo di limare ogni giorno le nostre bugie, per non abusarne, perché siano sempre un po’ meno bugie e perché ci assomiglino ogni sera di più. E la necessità di medici che siano anche medicine.

Davide Profumo
Davide Profumo
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