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massa, potere e turismo

Ho sempre pensato che la letteratura nasca dai luoghi del mondo e dal nostro incontro con gli spazi che abitiamo: a volte spazi interiori, dell’anima, altre volte porzioni del cielo o della terra, altre volte ancora le città che nel corso dei secoli abbiamo fondato e raccontato e in cui ci siamo incrociati, uomini di città con anime e cieli da provare a spiegare. Ho sempre pensato (e infatti l’ho anche già scritto) che la letteratura possa essere anche soltanto il racconto di questi nostri passi, che abbiamo scandito dentro i nostri luoghi del mondo, dentro le città, sulle rive del mare, lungo i fiumi che scendono. Ho sempre creduto che non sia un caso che al cuore della nascita della poesia ci stiano, a bella posta, due luoghi, due città: Troia e Itaca, il successo feroce e la nostalgia dolorosa, la guerra e il ritorno.

 

Per questo (non solo, ma anche per questo) aspetto che arrivi il più grande scrittore di questo inizio millennio e ci racconti, attraverso la sua letteratura o la sua poesia, attraverso un romanzo o addirittura un poema, e ci racconti quello che sta succedendo alle nostre città. Che è, mi pare, la più grande trasformazione a cui lo spazio che abbiamo scelto di abitare sta andando incontro da molti decenni a questa parte; e che ancora non ha trovato una voce che lo racconti come io sto aspettando che accada. C’è un articolo che ne parla, oggi, sul web. Si intitola «Le città al tempo del turismo di massa» e racconta un mondo con cui forse non facciamo abbastanza i nostri conti; un mondo che forse ci sta anche un po’ travolgendo. Quando, per esempio, dice così:

 

Il 29 novembre scorso il presidente uzbeko, Chavkat Mirzioïev, ha comunicato agli abitanti del centro storico di Khiva che i residenti dovranno abbandonare forzatamente le proprie abitazioni tradizionali e trasferirsi in palazzi moderni al di fuori dell’area antica. A darne notizia l’agenzia russa indipendente Fergananews, secondo cui il governo uzbeko avrebbe emanato un’ordinanza che obbliga gli abitanti a lasciare le proprie case per destinarle ai numerosi turisti che ogni anno visitano la parte antica della città. Nelle democrazie occidentali non occorrono ordinanze per far sì che i cittadini cedano le proprie abitazioni ai turisti: basta lasciare il mercato libero da lacci e lacciuoli e il resto viene da sé. Quando una città entra nel circuito dell’industria turistica i prezzi degli affitti e della vita salgono a un punto tale da obbligare gli abitanti a trasferirsi altrove.

 

Oppure anche così:

 

La trasformazione della città in bene di consumo muta il suo valore da valore d’uso in valore di consumo. È lo stesso spazio pubblico a trasformarsi in questo processo: il proliferare di tavolini che invadono le piazze e i vicoli, la scomparsa delle panchine e di tutto ciò che rimanda a uno spazio da condividere liberamente rompe l’idea di città come luogo di relazione sociale. La città storica diventa città-vacanze, un immenso albergo/centro commerciale in cui il patrimonio storico-artistico sponsorizza nuove forme di consumo.

 

E poi, tra un esempio e l’altro, l’articolo (che merita sul serio una lettura attenta, che merita più di una riflessione, che cita libri importanti di cui anche qui abbiamo già parlato) prosegue nella sua analisi e la caratteristica che forse anche voi noterete, come l’ho notata io, è che le città di cui si parla hanno tutte quante una caratteristica: sono città del sud d’Europa. Sono le città dei paesi che in Europa fanno più fatica a starci e che forse stanno un po’ diventando i villaggi turistici dell’Olanda e della Sassonia. Sono Venezia, Napoli, Lisbona, Barcellona e Malaga (e non sarà inopportuno rimandarvi, peraltro, a questo secondo link); sono le città della mia amata Sicilia, da cui sto scrivendo ora, e che l’articolo nemmeno nomina, ma che conosco bene, sempre più soffocate dall’industria più pesante (e meno pensante) degli ultimi anni.

 

Se la letteratura è davvero la nostra capacità di raccontare i luoghi che abitiamo, quelli dell’anima e quelli in cui incrociamo le nostre strade, ecco, è il momento, mi pare, che uno scrittore decida di raccontare quello che sta accadendo, che forse accadrà alle nostre città. Perché la letteratura ci insegna un po’ a vedere ma soprattutto ci insegna a immaginare. E forse abbiamo davvero bisogno di immaginare un futuro diverso da quello in cui i panni stesi sono un arredo urbano che diverte i turisti che calano dal Brandeburgo. Forse possiamo ancora immaginarci in panni diversi.

Davide Profumo
Davide Profumo
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