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magari anche uno specchio

Vorrei davvero parlarvi soltanto di libri e di librerie, almeno oggi, niente di più, niente di superfluo, niente di diverso da quello che normalmente mi si chiede. Anche perché avrei addirittura da proporvi un piccolo e intenso post che parla di letture e di persone in ospedale, un post insomma che parla di quello di cui mi occupo io insieme a quello di cui vi occupate voi, medici. Ed è questo, il post, che arriva alla fine a dire, con le parole di David Foster Wallace, quello che ci diciamo su queste quasi inutili pagine da tre anni, più o meno:

La cosa più difficile è sempre stata bussare alla porta della stanza, fare due passi, dire buongiorno e presentarsi. Sempre. Per qualche mese sono andato insieme ad altre persone in un ospedale milanese a chiedere ai malati se avevano voglia di starci a sentire leggere alcune pagine di un libro, e ogni volta la cosa più difficile è stata quella. Ogni volta il pensiero era “ma questa gente non avrebbe diritto di starsene in pace, perché sono qui, perché sto invadendo questo microscopico perimetro che delimita il loro letto”. Sono state più le camere nelle quali non sono entrato che quelle nelle quali ho messo piede: perché la persona aveva gli occhi chiusi, perché c’era una tapparella a metà, perché c’era una persona seduta vicino al letto, perché c’era una trasmissione del sabato pomeriggio che faceva da sottofondo ai minuti che passano da un pasto a una pastiglia. Ma in qualcuna sì, sono entrato, mi sono presentato, ho chiesto se volevano che, ho detto quali libri avevo con me. Ho ricevuto dei sì poco convinti – la maggior parte, quasi di cortesia, come se fossero loro a fare un piacere a me: e in effetti spesso avrei scoperto che era proprio così – e qualcuno più caldo…

Io mi fermo qui, ma voi arrivate fino alla fine, mi raccomando (come faccio sempre, più o meno). E sempre di libri (e di poesie) vorrei parlare anche quando torno a tirare in ballo la scrittrice “Elena Ferrante”, che ancora non siamo sicuri se sia davvero lei o sia un’altra. Leggete, se avete tempo e vi fidate di me, questo bel post scritto da Enrico Macioci e, mi raccomando di nuovo, arrivate fino alla fine, fino alle bellissime righe che parlano di Arthur Rimbaud, quando era in Africa a fare il mercante di armi e ricevette una lettera in cui gli si diceva che era diventato uno dei poeti più importanti della sua generazione, del mondo, di tutte le generazioni di uomini che nel mondo hanno scritto libri e poesie. E Macioci lo racconta così:

Ch’io sappia (avanzo per paradigmi) esiste però almeno un caso di concreta disfatta dell’ego: Rimbaud. Tutti conosciamo la sua parabola; a diciannove anni smette di scrivere, ha pubblicato solo sei o sette copie di Una stagione all’inferno distribuendole a un pugno d’amici spiantati (le restanti quattrocento copie rimangono a impolverarsi in un deposito di Bruxelles, dove saranno ripescate nel 1901); se ne va in Africa, fa il mercante, il geografo, l’esploratore. Poi un giorno lo raggiunge ad Harar una lettera, da Parigi; il mittente è il direttore d’una prestigiosa rivista di poesia. La lettera lo informa che, a distanza d’un quindicennio dalla sua fulminea sortita nei salotti della capitale, tramite la pubblicità di Verlaine le sue liriche circolano fra gli appassionati, che egli è ritenuto il magico profeta di una poesia nuova, una figura cui gli artisti guardano con stupore e ammirazione. Rimbaud non rispose; nessuno in Africa conosceva il suo passato e nessuno lesse la lettera. Da ragazzo aveva volto le spalle alla scrittura mai immaginando di poter, un domani, riemergere dall’oblio nel quale coscientemente si tuffava; e di nuovo volse le spalle, di nuovo abbracciò l’oblio. Ficcò la missiva in un cassetto, fra i registri contabili e i le ricevute sulle balle di caffè e il traffico dei fucili. In capo a pochi anni morirà. La missiva verrà ritrovata dopo la sua morte.

E di nuovo di libri (e di librerie) voglio parlarvi anche nel momento in cui decido di segnalarvi il post che ha scritto ieri il “bibliopatologo” Guido Vitiello, prendendo forse un po’ in giro quelli come me, che ancora amano ed elogiano le piccole librerie e poi di nascosto dai loro amici ordinano i libri on line, perché “è più comodo”. È un post interessante, lontano dai luoghi comuni, una riflessione che forse varrà la pena di approfondire nei prossimi mesi, se avrete ancora la pazienza di leggermi, che dice anche così:

Non sono mai riuscito a condividere oltre una certa soglia l’attaccamento sentimentale alle librerie indipendenti. Sarà che sono cresciuto in una grande città, sarà che sono stato sfortunato; ma nella mia adolescenza di girovago tra librerie grandi, medie, piccole e microscopiche non ho mai, neppure una volta, incontrato la figura del libraio cortese che ti raccomanda i migliori arrivi, ti tiene da parte le rarità, conversa amabilmente con te di passioni bibliofile, ti dissuade dal comprare un libraccio pluripremiato che è costretto a vendere di malavoglia. Per me è un personaggio mitologico, un po’ come il nonno che raccontava favole davanti al caminetto prima dell’avvento della televisione…

Ma la verità è che non si può mai parlare solo di libri, nemmeno oggi. Perché parlando di libri (e di lettori e di librerie) si parla sempre di altro e all’altro si ritorna, ogni volta che si apre o si chiude un libro. Per questo, dopo aver molto esitato ed essermi pure un po’ lamentato, ho deciso che nemmeno oggi parlerò solo di libri. Ma che farò piuttosto un’eccezione, la solita eccezione, segnalando un post che parla di altro, e lo fa splendidamente. Lo ha scritto il mio amico R., pseudonominatosi “plus1gmt” (che è meno bello di “Elena” ma vale lo stesso…), e racconta di quello che ci immaginiamo quando ci immaginiamo il paradiso. E non ci sono i libri nel suo post, ma c’è una ragazza, un daino, qualche stella e pure la luna… E comincia così, ed è molto toccante:

Dicono che da quelli della nostra generazione si aspettavano di più perché, alla fine, ci siamo tutti omologati e una volta messo su famiglia e casa abbiamo scelto camere matrimoniali piuttosto standard, seguendo quindi la tradizione di quanto avevano fatto i nostri genitori e i nostri nonni anche se rivisitata con stili più attuali. Nelle camere matrimoniali di oggi trovi sempre un letto a due piazze o massimo una piazza e mezza, un armadio gigantesco, un comò, due comodini o qualcosa che ne faccia le veci con due lampade, magari anche uno specchio…

Davide Profumo
Davide Profumo
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