Quando io ero un giovane lettore abbastanza attento alle novità editoriali, Angelo Ferracuti era un giovane scrittore molto promettente, uno di quelli che in Italia mi piacevano di più. Avevo quasi per caso letto il suo romanzo Attenti al cane , appena uscito in libreria, e per un po’ ne avevo seguito le altre pubblicazioni, perché la sua scrittura mi sembrava originale e il suo sguardo su quel’Italia di vent’anni fa mi pareva intenso e soprattutto coraggioso, molto di più di altri celebrati scrittori che infatti…
Poi, lo confesso, ho smesso di essere un giovane lettore attento e ho anche smesso di leggere i libri che Angelo Ferracuti ha negli ultimi anni pubblicato. Ma, non lo so, forse ho fatto male. Perché adesso sono sicuro che Ferracuti non è più un giovane scrittore, ma mi pare di poter dire, da quello che ho letto oggi sul web, che sia diventato forse ancora più bravo, più attento, senza perdere quel coraggio che avevo sempre riconosciuto nel suo sguardo, nella chiarezza del suo osservare il mondo dei miei contemporanei senza mai fare comodamente finta che…
Ferracuti ha dunque scritto e pubblicato un libro sul lavoro. Non è facile farlo oggi, ci vuole coraggio appunto. E Ferracuti lo ha trovato grazie a un luogo, il Sulcis, che è molto caro anche a me, per ragioni troppo varie perché io riesca a spiegarle qui. E parla quindi di una città del Sulcis, Carbonia, e in quella trova i paradigmi per un discorso così difficile da fare, come è quello sul lavoro, talmente complicato che tutti girano la testa dall’altra parte, parlano di altro, così difficile da fare che nessuno lo fa.
Prova dunque a farlo Ferracuti e dice così, introducendo il suo libro, che, mica per caso, si intitola Addio:
Era da un po’ di tempo che avevo intenzione di scrivere un lungo reportage narrativo sulla crisi che tutti stavamo vivendo, e all’inizio avevo pensato di fare un «Viaggio in Italia» nei luoghi del disagio e della desertificazione industriale. Il racconto dominante allora era quello retorico dei produttori, cioè raccontare chi ce l’aveva fatta o ce la stava facendo, e andava molto di moda questa parola, resilienza, cioè capacità di resistere e reinventarsi all’ineluttabilità delle dinamiche del neoliberismo, la formazione assistenziale, mentre io volevo raccontare, come nella migliore tradizione letteraria di impegno civile, proprio chi non ce l’aveva fatta e stava affondando, chi non arrivava alla fine del mese, lo stato di apnea sociale invisibile. […]
A Carbonia e dintorni capii che c’era tutta la storia di un secolo, che valeva la pena ricomporre e rinominare, c’erano ancora i resti di un’epica memorabile, quella del Germinale di Zola, della cittadina mineraria che visitò Orwell nel Nord dell’Inghilterra, Wigan Pier, il villaggio belga del Borinage dove il giovane Van Gogh abitò, come c’era ancora una classe operaia irriducibile che saliva per protesta sui silos, metteva in moto una mobilitazione permanente, bloccava i traghetti e gli aeroporti.
Ecco, magari verrà anche a voi la voglia di leggere questo libro su uno dei luoghi più particolari e dimenticati d’Italia e sul suo essere un luogo allegorico che parla del lavoro, non lo so: a me è venuta. E poi, visto che siamo nell’ambito delle confidenze, ve ne faccio un’altra: c’è un film uscito negli ultimi mesi che è secondo me uno dei film più belli sul lavoro (e sul perdere il lavoro e sul significato che ha il lavoro entro una vita intera e su quello che invece non ha più e sulla fatica e la schiavitù del lavoro e sullo spaesamento e sull’insensatezza del lavoro, anche) che siano stati mai girati. Si intitola Mia madre e non parla solo di una madre, come mi pare che in troppi abbiano nel frattempo creduto. Parla del lavoro che abbiamo oggi e lo ha girato Nanni Moretti che, personalmente, non smetterò mai di ringraziare.