Esistono nella mente di tutti noi, credo, luoghi più importanti di altri, a volte luoghi allegorici, immaginati, sognati, altre volte luoghi veri, di muri mercati e persone, città inquinate o afose o gelide, alberi case colline: comunque luoghi a cui attribuiamo valore maggiore, qualcosa in più, che forse non sappiamo nemmeno spiegare. Insomma, ci sono luoghi che scegliamo, che ci scelgono, in cui andiamo a cercare qualcosa che per qualche ragione sappiamo di non poter trovare altrove. E a me per esempio capita, da qualche anno, di voler cercare la mia idea di Europa a Sarajevo.
Non so perché, potrei anche inventarmi ragioni vagamente storiche (l’attentato, la guerra mondiale eccetera) o etniche o religiose… Ma sarebbero, per quanto credibili, razionalizzazioni. Il punto è invece che io istintitvamente penso a Sarajevo come a uno dei centri dell’Europa. E mi è capitato di dirlo in tante conversazioni, che non penso che possa esistere un’Europa che non sappia guardare verso i Balcani, e quindi verso Sarajevo. E credo che ogni studente dovrebbe essere messo su un pullman, prima che la sua scuola finisca, e portato a Sarajevo, a vedere che cosa è quella città, che cosa è stata quella città, che cosa quella città potrebbe essere o sarà.
Per questa mia passione (alimentata male, confesso anche questo: non ho mai vissuto a Sarajevo, ci ho solo fatto il turista, immagino sia davvero poco), segnalo qui oggi due letture che hanno a che fare con Sarajevo (e con quello che vi accadde vent’anni fa) ma anche con l’oggi che stiamo vivendo e di cui cerchiamo continuamente di definire i contorni: e forse Sarajevo, con il suo assedio, è in grado di aiutarci anche in questo
La prima lettura è un libro. Si intitola Il tunnel ed è stata una delle letture che mi ha più emozionato in questi mesi (quella che ho più amato in questi giorni di quarantena e isolamento: e non credo sia un caso). Lo ha scritto Sergio Pilu e lo ha lui stesso presentato in un articolo (di un mese fa: lo trovate qui) che parla di lockdown e di noi chiusi in casa e di quel lontano conflitto e di molti altri luoghi di quella città. Inizia così, questo articolo:
… era passata circa una settimana dall’inizio del lockdown – o comunque tu lo voglia chiamare, quella cosa lì: non esco-esco, quarantena, autocertificazione, guanti-mascherina-gel – quando mi è arrivato un messaggio da un amico che vive a Sarajevo. Prima dell’ingenuo e commovente «se posso fare qualcosa per te, ti prego chiedi e farò del mio meglio» mi ha scritto «tutto questo – le notizie e le immagini che arrivavano dall’Italia – ci ha ricordato i tempi della guerra e cosa significa essere rinchiusi». La frase mi ha colpito perché in mezzo a tante fesserie a sfondo bellico dette e scritte da chi teorizzava la prima guerra della storia combattuta dalle trincee del divano questa spiccava per essere sia la meno violenta sia quella più radicata nella realtà: se non altro perché scritta da uno che la guerra sa cos’è. Mi ha colpito abbastanza da farmi ripensare a quella città e a quel paese, per capire se c’era qualche lezione da imparare, qualche esperienza altrui sulla quale appoggiarsi e farla tornare utile in una terra diversa.
Mentre nel libro, se lo leggerete, a un certo punto troverete questo passaggio:
Istočno Sarajevo. East Sarajevo. Il suo centro dista dal centro della città che tutti conosciamo almeno di nome meno di nove chilometri. Quindici, venti minuti in macchina in condizioni normali. Dall’Ippodromo a Piazza Duomo, per chi conosce Milano. Ma stanno in due paesi diversi, Sarajevo in Federazione di Bosnia e Erzegovina, East Sarajevo in Republika Srpska; e stanno in due mondi diversi, trovandosi sulle due sponde della Tilava. Mustafa ha appena finito di suggerirci, pacato e gentile, di non farci vedere mentre fotografiamo quando imbocchiamo una via che costeggia una palazzina alta due o tre piani e lunga quanto l’intero isolato: il municipio, alle cui spalle resta il centro culturale di Istočno Novo Sarajevo. Andiamo abbastanza lenti da permettermi prima di guardare l’edificio che sfila davanti ai nostri occhi e poi di vedere i grandi poster, tutti uguali fra loro, che coprono metà delle finestre del piano terra. Con l’ansia dell’incredulità chiedo a Mustafa di rallentare ancora, di fermarsi se può (no, non può e non vuole), appoggio il telefono al finestrino e scatto in fretta due, tre, quattro foto delle quali solo una resterà sufficientemente nitida e mostrerà, a fianco delle tre icone ortodosse che si intuiscono all’interno della prima stanza la cui finestra sia stata lasciata libera, il volto sorridente di Ratko Mladic in uniforme ripetuto quattro volte.
L’altra lettura è un articolo sul calcio. Ma non su quello non giocato di questi giorni, bensì su quello incredibilmente giocato in quei lontani giorni, quelli dell’assedio di Sarajevo. Lo ha scritto Dino Huseljić e racconta momenti straordinari di quella clausura, in cui il pallone era una delle forme della resistenza, in cui i giocatori di calcio erano ben più di se stessi (lo trovate qui, il suo articolo). E a un certo punto vi racconta di questa squadra:
Nell’ottobre 1993, dentro la città assediata, un gruppo di appassionati decise di fondare una nuova società di calcio: l’Olimpik Sarajevo. Il nome del club ricorda i Giochi Olimpici Invernali, tenutisi nella capitale bosniaca nel 1984: uno degli eventi che, insieme all’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando e all’assedio, si lega più frequentemente al nome della città. La squadra fu riunita, ma nell’immediato non era possibile giocare all’aperto, a causa dei bombardamenti. I calciatori cominciarono comunque ad allenarsi nelle palestre cittadine e parteciparono al torneo cittadino di futsal, vinto nel 1993. Già da quell’anno, però, era sorta l’idea di giocare un campionato nazionale di calcio, nonostante l’intero Paese fosse investito dalla guerra. Nel 1993, fu giocato un primo torneo di qualificazione fra le squadre della regione di Sarajevo, disputato fuori dalla città, nelle zone meno coinvolte dal conflitto. L’Olimpik riuscì a qualificarsi alla fase interregionale, giocata contro le squadre delle altre città governate dalle forze bosniaco-musulmane. Una volta usciti da Sarajevo, attraverso il tunnel che era stato costruito sotto la pista dell’aeroporto, i calciatori dell’Olimpik potevano raggiungere le strutture in cui avrebbero giocato dopo lunghi viaggi, nei quali percorrevano le zone controllate dall’esercito bosniaco-musulmano ed evitavano attentamente i checkpoint nemici, che potevano facilmente portare alla morte. L’Olimpik riuscì a classificarsi secondo nel girone interregionale e a qualificarsi così alla prima storica stagione del campionato bosniaco, che si sarebbe disputata fra il 1994 e il 1995.
Esistono insomma luoghi che ci parlano più di altri ed esistono libri e parole che ci sanno spiegare in parte questo nostro misterioso legame. Voi avrete i vostri luoghi, io ho i miei, uno dei quali è senz’altro Sarajevo. Ma le parole che oggi ve lo raccontano sono di altri e valgono assai più delle mie.