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l’ordine naturale delle cose

Ho letto da qualche parte, e mi farebbe pure piacere ricordarmi dove, che noi esseri umani tendiamo a chiamare «natura» e «ordine naturale delle cose» tutto ciò che troviamo al mondo quando nasciamo. Per esempio, i bottoni (che sono tecnologia). O il telefono (che è, ovviamente, tecnologia). O anche il berretto di lana con il pon-pon (che è tecnologia). E sempre da qualche parte (forse la stessa, forse no, non ricordo più niente…) ho letto che siamo pronti ad accettare i cambiamenti al nostro «ordine naturale delle cose» per circa venti o venticinque anni: dopo di che tutte le novità ci paiono pericolose, assumono contorni apocalittici e minacciosi, diventano un rischio per il nostro «ordine naturale delle cose». E dunque cominciamo ad averne paura (mentre altri, inevitabilmente, stanno nascendo e le considerano il loro «ordine naturale delle cose»: la rete internet, le auto elettriche, l’aria condizionata e chissà cos’altro).

Ho pensato a questo oggi, perché ho letto che un giorno è stata inventata la cucina componibile. E ho pensato, appunto: ma guarda un po’. E ho pensato anche: e come si stava prima? cosa c’era al posto di una cucina componibile, prima?

Ma soprattutto mi è sembrata molto bella la storia della donna che ha inventato la cucina componibile: un’architetta austriaca che è vissuta fino a 103 anni e che ha attraversato tutta la storia del secolo scorso, peraltro vivendola in prima linea, in tutte le sue contraddizioni, fino a condurci al nostro mondo di accessori ikea ordinabili on line, il massimo del tempo risparmiato, il massimo della componibilità, il massimo della libertà, il massimo della schiavitù.

La trovate qui, la storia di questa donna che si chiamava Margarete Schütte-Lihotzky. Non è letteratura ma mi pare un racconto così bello da assomigliare molto alla letteratura (e magari a qualcuno, prima o poi, verrà in mente di scriverci un libro, non so). E per esempio potete leggere questo bel passaggio:

Dopo la fine della Prima guerra mondiale, le rivolte dei lavoratori e delle minoranze nazionali portarono l’Impero Austro-Ungarico al collasso. Vienna fu sopraffatta dalla fame e da un’estrema penuria di case. Un enorme numero di lavoratori occuparono le terre periferiche intorno alla città e vi costruirono delle semplici baracche. Come ha in seguito ricordato Lihotzky, «spinti dalla necessità costruirono degli insediamenti ingombranti senza nessun permesso ufficiale». La giovane architetta accettò un lavoro nella commissione abitativa della città e si adoperò in favore del movimento. Sviluppò dei prototipi di case facili da costruire, disegnò le sue prime cucine, e ascoltò le preoccupazioni degli occupanti. Era qualcosa di completamente nuovo: sotto la monarchia asburgica la maggior parte degli architetti lavorava per le élite, progettando case per la classe agiata con stucchi e facciate meravigliose. Invece Lihotzky faceva architettura sociale, nel tentativo di migliorare le condizioni di vita della classe lavoratrice. Riassumendo i principi guida del suo lavoro – un approccio all’architettura orientato alla funzionalità – Lihotzky insisteva sul fatto che il lavoratore medio «trae più beneficio dal lavello della cucina che dall’angelo sul soffitto».

E poi potete andare avanti e scoprire che stiamo parlando di una donna politicamente molto impegnata, molto antifascista, molto convinta di lavorare per il bene di tutti più che per il proprio. E non lo so, c’è probabilmente qualcosa di molto ingenuo nella storia di questa architetta dal nome impronunciabile e nel modo in cui la racconta Marcel Bois, credo di sì. Ma mi è piaciuta lo stesso, un po’ perché a volte mi succede, che mi alzo la mattina e ho proprio bisogno di qualcosa di ingenuo, e un po’ perché è bello vedere che l’«ordine naturale delle cose» che ci circondano non è proprio così «naturale». E che quindi, ad avercene la forza (e l’ingenuità), esso può anche essere modificato, negato, mutato.

Davide Profumo
Davide Profumo
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