l’impiego del tempo
3 Marzo 2016la desinenza in A
8 Marzo 2016Ci sono interviste che non sanno essere se non nostalgiche, e si fa anche un po’ fatica a capire perché. Sono di solito interviste in cui l’intervistato è un «venerabile maestro» (e lo dico del tutto senza ironia, mi tocca precisarlo) e l’argomento è qualcosa che ha a che fare, anche da lontano, anche solo per sentito dire, con una qualche corruzione dei tempi nostri, che in altre epoche sarebbe stata semplicemente impensabile.
Il «maestro» dell’intervista che cito oggi è Luca Serianni, il quale maestro lo è davvero, per almeno un’intera generazione (quella cui io appartengo), di studi letterari e soprattutto linguistici, di grammatica e di lessicografia. Insomma, uno studioso che quando parla di lingua e di letteratura è bene ascoltare con attenzione, perché di stupidaggini ne dirà assai poche. L’intervista però dipende pure dall’intervistatore, come si sa; e spesso si ha la sensazione che la «nostalgia» dei tempi (belli) che furono sia più una pigrizia di colui che fa le domande piuttosto che di quello che dà le risposte, cercando piuttosto di schivarne le banalità. E anche oggi mi è sembrato così.
Nell’intervista, che parte dall’aggettivo «petaloso» e arriva fino all’insegnamento delle lingue nelle scuole e nelle università, si dicono molte cose condivisibili e altre meno, ma soprattutto si dice una cosa che mi ha molto interessato. Si dice che sia necessario leggere i libri (i grandi classici) per «trovare lontananze». Io, sinceramente, l’ho sempre creduto e lo reputo verissimo. Lo si dice qui:
Certamente è importante come si presentano i classici ma, attenzione, è ancora più importante non volerli attualizzare a tutti i costi. Non bisogna cercare e trovare l’identico significato, quello che noi ci aspettiamo ci debba essere, nelle varie epoche storiche di cui ci occupiamo. Presentare i classici come identici a noi significa proiettare su di essi il nostro punto di vista “moderno”, e invece è essenziale trovare lontananze, differenze, che stimolino per contrasto anche noi. E ci portino a conoscere meglio noi stessi.
E mi pare che, questa idea che io prendo come bellissima, non sia molto diversa dalla citazione che oggi lo scrittore Paolo Nori attribuisce a Giorgio Agamben; il quale dice che «l’arte non serve per rendere visibile l’invisibile, serve per rendere visibile il visibile». Come un falco alto levato dopo aver letto Montale, penso io; o un sentiero di nidi di ragno dopo aver letto Calvino; o la biblioteca di un antico monastero dopo aver letto Umberto Eco. E si capisce molto bene, quindi, la storia del senegalese chiamato a raccontare l’Emilia, nelle sue abitudini più tipiche e caratteristiche:
Mi è tornato in mente un esempio che mi torna in mente spesso, in questi ultimi mesi, l’esempio di quegli antropologi bolognesi che qualche decennio fa avevano invitato un cantastorie senegalese, uno che scriveva delle storie e poi le metteva in musica e le cantava ai suoi concittadini, l’avevano invitato a Bologna e gli avevano detto di osservare i bolognesi e di scrivere poi una canzone su di loro da cantare ai senegalesi e lui, tra le altre cose, aveva scritto che in Europa, al mattino, succedeva una cosa stranissima, c’era un sacco di gente che andava in giro legata ad un cane.
Insomma, c’è una cosa che fa l’arte e che fanno la scrittura e la letteratura di cui qui, modestissimamente, ci occupiamo. Ed è una cosa che forse ha davvero un po’ a che fare con la nostalgia, a prescindere dalla banalità dell’intervistatore. Trovano il lontano che ci sta vicino, lo rendono abbastanza lontano perché noi lo si possa mettere a fuoco e finalmente vederlo e vedere noi stessi dentro di lui. Bisogna averne voglia, ma con un po’ di sforzo ci si riesce. E si scopre di essere qualcosa che non eravamo, qualcosa di distante, qualcosa che nella sua distanza ci infonde una lieve nostalgia. O forse, semplicemente, ci rende consapevoli di non essere così vicini a noi stessi (al cuore di noi stessi) come ci pareva di essere.
Poi c’è anche un film, che c’entra poco ma che è molto bello. È un film cileno, di un regista molto bravo, viene descritto qui e mi pare che possa essere una descrizione efficace. Vi lascio anche questa. Si parte da un luogo lontano per scoprire, chissà, che non era poi così lontano da noi. Perché i viaggi letterari, è ovvio, sono sempre a doppio senso.
2 Comments
come intendi tu la frase di Serianni «Manca l’abitudine alla lettura di testi saggistici, che l’editoria pensa per il cosiddetto “lettore colto” (e non sto parlando di testi particolarmente ardui).»?
Mi ci sono soffermato pure io, su quel passaggio. Non capisco se è un “rimprovero” a chi non legge saggi o alle case editrici che li pensano (e li pubblicizzano) solo per il cosidetto lettore colto. O se è un rimprovero a chi, come gli insegnanti della scuola, non provano a ingenerare questa abitudine. Però penso che sia vero che il lettore italiano (quello che conosco io, dai…) identifichi il “libro” con il “romanzo” e raramente vada oltre. Il che ha delle conseguenze anche sulla nostra media capacità di aregomentare. Però faccio un po’ fatica a darne la colpa agli editori.