foglie di papiro
25 Ottobre 2020tre ritratti e uno specchio
1 Novembre 2020Mi piacque la copertina del libro, immediatamente. Perché c’è l’animale, solo, sulla terra gialla, immobile, sotto il sole; e ci immaginiamo che ci sia anche l’uomo, qualche metro più avanti, l’uomo che fissa l’animale da cui è in quel momento fissato, ma l’uomo non si vede, la copertina finisce prima, l’uomo ce lo possiamo soltanto immaginare, forse non c’è nemmeno, forse è la nostra presunzione che ci chiede di immaginarlo… Ma più ancora mi piacque l’ombra dell’animale, lunga, lunghissima, proiettata fino sull’orlo della pagina, a sfiorare la costa del libro, il punto in cui il giallo ocra comincia a piegarsi e la copertina non è più copertina, diventa qualcosa di altro da sé, e noi possiamo voltare il libro cercando l’ombra dell’uomo, ma dell’uomo non c’è nulla.
Il libro è questo, di Matteo Nucci. Si intitola Il toro non sbaglia mai. L’ho letto quest’anno, nei mesi di quella primavera immobile che abbiamo attraversato, e ho dapprima con esitazione poi con sempre maggiore entusiasmo, provato a capire, a cogliere le sfumature, a trovare l’umanità e la magia di un mondo, quello degli incontri tra uomini e tori, che conoscevo pochissimo. L’ho trovata, o almeno ho creduto di averla trovata. Ho amato il libro e le sue splendide storie di tori, di toreri, di Andalusia, di sole e di allevamenti, ho guardato tante volte la sua copertina, il giallo del sole e della terra, l’ombra del toro.
Ed è la stessa magia e umanità (al singolare, come se fossero una cosa sola) che ho ritrovato oggi nel pur breve articolo che Matteo Nucci ha dedicato a un altro luogo, lontano dall’Andalusia, in cui gli uomini e il toro si incontrano, si guardano, si mescolano, capiscono il sé che sta nell’altro da sé, l’ombra che (entrambi) sono. L’articolo parla di una fiesta a El Espinar, di una notte castigliana in cui lo scrittore si trova e per caso scopre il toro. Inizia così:
Fu durante una lunga notte di settembre alla fine degli anni Novanta che si aprì per me la più meravigliosa voragine conoscitiva, quella relativa al regno animale, regno di cui, oggi più che mai, noi esseri umani spesso dimentichiamo di far parte. Mi trovavo in un piccolo paese spagnolo a nord di Madrid, El Espinar, dove ero arrivato per assistere ai festeggiamenti più attesi, quelli religiosi e laici a cui ogni cittadina spagnola consacra, almeno una volta all’anno, vari giorni di assoluta sospensione dalla realtà quotidiana. Fra le molte cerimonie che si tenevano, mentre l’autunno si spalancava in uno di quei freddi improvvisi che sotto alla Sierra de Guadarrama possono risultare assassini, quella notte venivano liberati nell’arena del paese giovani tori selvaggi. Sapevo che, in una delle tante forme di gioco con il toro ancora in voga in Spagna, si trattava di una sorta di sfida per ragazzi pronti a correre davanti alle corna per l’occasione coperte degli animali. Sapevo che si trattava di gioco inoffensivo e da buon anticorrida come ero stato educato, pensai che potesse essere interessante assistere. Nulla più. E così fu enorme la meraviglia quando mi ritrovai sconcertato, improvvisamente insensibile al freddo, impaurito e affamato come capita quando una grande rivelazione ci ha appena fatto visita. La meraviglia – questo lo sapevo bene dagli amati greci– è ciò che spinge gli uomini a lanciarsi nella conoscenza.
E naturalmente prosegue (lo trovate qui), racconta un incontro e una passione, parla di un altro libro di un altro autore che sta per essere pubblicato in Italia e che racconta di tori, spiega come il toro sia mistero e mitologia, apollineo e dionisiaco, animale e uomo, dice a un certo punto così:
Nella notte di El Espinar quel che mi meravigliò non fu infatti la forza del toro ma la sua intelligenza, una sorta di acutezza che si raffinava con l’esperienza. Il toro entrava trionfante nell’arena, ma era sbadato, vanaglorioso, certo della propria supremazia. Via via che la stanchezza gli portava via la potenza, i suoi occhi si facevano scintillanti, pieni di un’acutezza, un’attenzione e una prudenza quasi umane. Lento e guardingo, l’animale selvaggio – o meglio, l’unico animale domestico allevato per rimanere selvaggio: il toro da combattimento – si faceva esperto e saggio, dunque sempre più pericoloso. Era allora che i ragazzi lasciavano l’arena e i mandriani riportavano l’animale nelle stalle.
E lascia intuire, anche nello spazio di un articolo così breve, la vicinanza che l’uomo ha sempre sentito con il toro, la necessità che avvenga quell’incontro sotto il sole, nei pressi della morte, in una vertigine di spavento che è forse il nostro sguardo sulla nostra finitezza e impotenza… E tante altre cose, secondo me, che il libro di Matteo Nucci spiega benissimo.