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Lo studio AFIRE

A cura di Sarah Cortinovis

Al complesso mosaico della terapia antitrombotica nei pazienti affetti da fibrillazione atriale e cardiopatia ischemica, Yasuda e colleghi hanno recentemente aggiunto una nuova tessera, pubblicando il trial AFIRE (Atrial Fibrillation and Ischemic Events with Rivaroxaban in PatiEnts with Stable Coronary Artery Disease). Lo studio, open-label e multicentrico, realizzato in Giappone, ha arruolato 2236 pazienti con fibrillazione atriale e malattia coronarica stabile (intesa come coronaropatia sottoposta a rivascolarizzazione miocardica da almeno 12 mesi o nota coronaropatia non significativa ad angiografia eseguita almeno 1 anno prima).

 

DISEGNO DELLO STUDIO

Lo studio prevedeva una fase di screening, durante la quale il rischio tromboembolico dei pazienti con fibrillazione atriale era stratificato sulla base dello score CHADS2 (Congestion Heart Failure, Hypertension, Age ≥ 75 years, Diabetes Mellitus, Prior Stroke or TIA). I pazienti erano arruolabili esclusivamente nel caso di un valore del CHADS2 di almeno 1 e in presenza di anamnesi indicativa di cardiopatia ischemica, trattata almeno 1 anno prima con angioplastica coronarica (70% della popolazione) con o senza posizionamento di stent o by-pass aortocoronarico (11% dei pazienti) oppure, nel caso di nota coronaropatia (stenosi ≥ 50% documentate tramite angiografia), che non avesse richiesto rivascolarizzazione (restante 19% della popolazione).

Rappresentavano criteri di esclusione: età inferiore ai 20 anni, storia di trombosi di stent, neoplasia attiva e ipertensione arteriosa scarsamente controllata dalla terapia.

I pazienti venivano randomizzati con una ratio 1:1 a due bracci di trattamento: il primo gruppo riceveva una monoterapia costituita da rivaroxaban a una dose giornaliera di 15 mg (ridotta a 10 mg in caso di filtrato glomerulare compreso tra 15 e 49 ml/min), mentre il secondo gruppo riceveva una terapia combinata, composta da rivaroxaban e un antiaggregante (acido acetilsalicilico nel 70,2% dei casi o un inibitore di P2Y12 scelto a discrezione dell’investigatore nel restante 26,8%).

Gli end point primari erano sia di efficacia in termini di trombosi e di ischemia (composito di stroke, embolismo sistemico, sindromi coronariche acute e morte per tutte le cause) sia di sicurezza (sanguinamento maggiore in accordo con i criteri dell’International Society on Thrombosis and Hemostasis).

Gli end point secondari includevano i singoli componenti degli end point primari e un composito di eventi ischemici cardiovascolari o morte (morte per ogni causa, infarto del miocardio, angina instabile, TIA, stroke, embolismo arterioso sistemico, tromboembolismo venoso, rivascolarizzazione miocardica o trombosi di stent).

 

RISULTATI DELLO STUDIO

L’end point primario di efficacia si è osservato in 89 pazienti del primo gruppo (solo rivaroxaban) e in 121 pazienti del secondo gruppo (rivaroxaban e singolo antiaggregante); rispettivamente un tasso di incidenza annuale per paziente pari al 4,14% nel primo gruppo e al 5,75% nel secondo gruppo (HR 0,59; 95% IC: 0,55-0,95; P < 0,001 per non inferiorità). Analogamente, è risultato statisticamente inferiore nel primo gruppo il tasso di incidenza annuale per paziente dei sanguinamenti con un buon intervallo di confidenza (HR 0,59; 95% IC: 0,39-0,89; P = 0,01). In particolare, l’incidenza è stata più bassa nel gruppo della monoterapia per i sanguinamenti non maggiori (5,895 vs 10,31% per paziente all’anno; HR 0,58, 95% IC: 0,46-0,72).

L’analisi statistica ha inoltre rivelato che la mortalità per tutte le cause risultava inferiore nel gruppo trattato solo con rivaroxaban (tasso del 1,85% vs 3,37%; HR 0,55, 95% IC: 0,38-0,81); tale riduzione era dovuta a una minore mortalità sia per cause cardiovascolari (tasso di incidenza annuale per paziente pari a 1,17% nei pazienti del primo gruppo vs 1,99% del secondo gruppo, HR 0,59; 95% IC: 0,36-0,96) sia per cause non cardiovascolari (0,68% vs 1,39%, HR 0,49; 95% IC: 0,27-0,92).

 

L’incidenza dell’end point secondario composito era inferiore, seppure con un intervallo di confidenza piuttosto ampio, nel gruppo della monoterapia rispetto al gruppo della duplice terapia (tasso di incidenza annuale per paziente 5,37% vs 6,77%, HR 0,80; 95% IC; 0,62-1,02).

Gli investigatori dello studio concludono pertanto che, nei pazienti affetti da fibrillazione atriale e malattia coronarica stabile, la monoterapia con rivaroxaban è risultata non inferiore per efficacia e addirittura superiore in termini di sicurezza rispetto alla terapia combinata di rivaroxaban con singolo antiaggregante.

 

DISCUSSIONE E CONCLUSIONI

È doverosa una considerazione sul dosaggio di rivaroxaban assunto dai pazienti, pari a 15 o 10 mg die, in base alla funzionalità renale; si potrebbe pensare a un sottodosaggio del farmaco se rapportato con la consueta terapia di 20 mg die prevista in caso di fibrillazione atriale. In realtà, l’analisi della farmacocinetica ha dimostrato che la concentrazione di rivaroxaban nei pazienti giapponesi che assumono 15 mg die è simile a quella dei pazienti caucasici a cui è somministrata la dose giornaliera di 20 mg die. Dunque il dosaggio utilizzato nello studio AFIRE non rappresenta in sé un vero limite dello studio.

Al contrario, i limiti dello studio sembrano essere la scelta dell’antiaggregante da parte del singolo investigatore, la precoce interruzione del trial a causa dell’incrementato rischio di morte per ogni causa nel gruppo della terapia combinata – potrebbe sovrastimare i dati di efficacia – e infine la riduzione degli eventi ischemici e della morte per ogni causa nel braccio della monoterapia, che non è facilmente comprensibile basandoci sul meccanismo d’azione del rivaroxaban.

 

Il merito più rilevante del trial è quello di aver superato i limiti dello studio OAC-ALONE (Optimizing

Anti-Thrombotic Care in Patients with Atrial Fibrillation and Coronary Stent), che ha confrontato in una popolazione dalle caratteristiche simili (fibrillazione atriale e malattia coronarica stabile intesa come condizione clinica dopo almeno 12 mesi dal posizionamento di stent coronarico) due schemi terapeutici: solo anticoagulazione con antagonisti della vitamina K (warfarin nel 75% dei pazienti) o anticoagulanti diretti (25% dei pazienti ) e anticoagulazione in associazione ad antiaggregazione singola (aspirina o clopidogrel).

Nello studio OAC-ALONE, l’outcome primario costituito da morte per ogni causa, infarto miocardico, stroke o embolismo sistemico era raggiunto nel 15,7% dei pazienti con sola terapia anticoagulante e nel 13,6% di quelli trattati con terapia combinata (HR 1,16; 95%; 95% CI, 0,79 to 1,72; P = 0.20 per non inferiorità, P=0.45 per superiorità).

Inoltre, si è evidenziata un’incidenza dei sanguinamenti maggiori – occorsi nel 7,8% e nel 10,4% dei pazienti – non statisticamente significativa tra i due gruppi, benché applicando la definizione TIMI dei sanguinamenti maggiori la differenza tra i due gruppi assumesse un valore borderline (P = 0,07), con una sicurezza a favore della terapia combinata.

Il composito netto derivante dalla mortalità per tutte le cause, infarto del miocardio, stroke, embolismo sistemico o sanguinamenti maggiori, che definiva l’end point secondario, risultava sovrapponibile tra i due schemi terapeutici, permettendo di evidenziare la non inferiorità della sola anticoagulazione (19,5% vs 19,4%; HR 0,99, 95% CI 0,71-1,39; P per superiorità = 0,96; P = 0,016 per non inferiorità).

Tuttavia, lo studio OAC-ALONE non è risultato conclusivo, poiché precocemente interrotto a causa del lento arruolamento (inclusi 696 pazienti rispetto alla stima iniziale di 2000) e quindi dotato di un basso valore statistico.

 

La superiorità di una strategia terapeutica basata sulla solo anticoagulazione è dimostrata anche dai dati derivanti dai registri internazionali quali il PREFER-in-AF (Prevention of Thromboembolic Events — European Registry in Atrial Fibrillation) e PREFER-in-AF PROLONGATION; analizzando i 1058 pazienti provenienti da questi registri, Patti et al. hanno concluso che la sola anticoagulazione, se confrontata con la terapia combinata (intesa come anticoagulante con singolo antiaggregante), è associata a un numero inferiore rispetto all’atteso sia in termini di sanguinamenti maggiori che di eventi ischemici (in particolare sindromi coronariche acute). La ragione di tale conclusione può essere ricercata nel fatto che una maggiore incidenza di sanguinamenti in chi assume la terapia combinata può determinare più frequentemente l’interruzione della terapia stessa, esponendo quindi il paziente a un rischio aumentato di eventi ischemici.

 

L’altro pregio del trial AFIRE è di aver confermato, anche nell’ambito della cardiopatia ischemica “stabile”, la conclusione a cui si è giunti attraverso i tre principali studi di confronto coinvolgenti i nuovi farmaci anticoagulanti nei pazienti affetti da fibrillazione atriale che devono essere sottoposti ad angioplastica coronarica (PIONEER AF-PCI, RE-DUAL PCI e AUGUSTUS); la terapia antitrombotica ideale in questo setting di pazienti è rappresentata dall’associazione di un anticoagulante non-vitamina k e singolo antiaggregante (o, nel caso del rivaroxaban, quest’ultimo a basso dosaggio in associazione con doppia antiaggregazione), in quanto tale approccio è pari, se non addirittura superiore, in termini di sicurezza (gravata da minor rischio di sanguinamento) ed efficacia, alla combinazione di anticoagulante, soprattutto Warfarin, con doppia antiaggregazione piastrinica.

 

L’AFIRE ci permette pertanto di compiere un cambio di prospettiva, non considerando la fibrillazione atriale e la malattia coronarica stabile come entità a sé stanti, che necessitano di una terapia combinata con anticoagulazione e antiaggregazione, ma appartenenti a un unico spettro di patologie che possono beneficiare dall’assunzione della sola anticoagulazione. Secondo questo studio, infatti, la monoterapia con rivaroxaban è efficace nel prevenire gli eventi cardiovascolari e la morte per tutte le cause al pari della duplice terapia ed è più sicura di quest’ultima in quanto gravata da una minore incidenza di sanguinamenti.

 

BIBLIOGRAFIA

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Sarah Cortinovis
Sarah Cortinovis
Cardiologo presso l’UTIC della Fondazione Poliambulanza di Brescia

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