Laplace (Pierre Simon de Laplace, 1749-1827)
30 Agosto 2016porti di mare
2 Settembre 2016Se vi pare che io travisi, fate finta di niente, non importa. È possibile, mi capita spesso e ogni anno che passa, naturalmente, mi capita sempre di più. Però, anche a costo di travisare, ci sono due post che ho letto in questi giorni che mi sono sembrati parlare (anche) di una medesima cosa, di una immagine lontana, così lontana da essere invisibile, il che per un’immagine, ne converrete, è caratteristica alquanto curiosa, forse addirittura inaccettabile….
E il dubbio sul mio travisamento vi potrebbe senz’altro venire sapendo che i due post trattano di temi così profondamente e radicalmente lontani (anche loro, come l’invisibile). La vita contemplativa di preghiera dei monaci certosini da una parte e la ragazza dei capelli rossi (quella di cui Charlie Brown perdutamente si innamorò) dall’altra. Insomma il sacro e il profano, l’alto e il basso, il tutto e il nulla. O viceversa.
Ma parto da qui, dal viaggio incomprensibile (a me) e dal buio verso cui fissano il loro segreto sguardo i monaci:
«Il monaco può essere paragonato al mozzo che […] si arrampicava sulla cima dell’albero maestro per scrutare l’orizzonte nella speranza di vedere profilarsi una riva sconosciuta». Il mozzo non è al timone, non deve soffrire di vertigine, è una vedetta che deve gridare «Terra!» quando gli altri ancora non possono vederla. È una vedetta che mantiene accesa la fede di questo futuro avvistamento. Il certosino, ancora, è l’uomo che si addentra nel deserto («a nome di tutti»), inseguendone il silenzio, condizione decisiva per l’ascolto più importante: «La pedagogia del deserto ci dovrebbe preparare a cogliere il “sussurro” della presenza di Dio. Esso resta un segno debole, ma noi infine siamo capaci di udirlo».
E arrivo qui, a questo racconto dell’amore (cortesissimo) in cui i protagonisti sono soltanto due disegni, uno nemmeno mai realizzato, perché nessuno lo ha mai visto (e quindi, forse, non è nemmeno un disegno, a meno che non valgano i disegni soltanto immaginati…):
Charlie Brown sulla sua panchina nell’ora di colazione, con in mano il sacchetto del pranzo, a sognare che lei venga a sederglisi accanto; il fidato Linus mandato come messaggero d’amore (un poeta cortese avrebbe usato un usignolo); il biglietto di San Valentino per la Little Red-Haired Girl imbucato anonimo dopo mille rovelli; l’altro biglietto, che Charlie Brown si ritrova nella tasca della giacca nuova, persuaso che sia un messaggio della ragazzina coi capelli rossi, e invece porta scritto “Questo indumento è stato controllato dall’ispettore n. 23”; il desiderio che Snoopy non sia un brachetto ma un pony, anzi due pony, uno dei quali pomellato, per poter invitare l’amata a un’escursione cavalleresca; le tante lettere non spedite. E poi, le scene strazianti: Charlie Brown ammutolito mentre il furgone dei traslocatori si porta via la piccola Dama, accanto a Linus che lo esorta a parlarle, una buona volta (“Devi dirle addio, Charlie Brown”. “Non le ho neanche mai detto salve”); i giorni e le notti spesi davanti alla casa disabitata; il nuovo avvistamento, in seggiovia – lui sale, lei scende, chimerica e inafferrabile come sempre; il torpedone che la porta di nuovo lontano.
I due post sono belli, entrambi. Se anche mi stessi sbagliando e non avessero nulla a che fare l’uno con l’altro, be’, che siate tra i fortunati a cui la bellezza sa essere di consolazione, almeno.