«Il Balzac di Roma»… Ecco, ve lo confesso subito: se mi avessero chiesto a bruciapelo chi si indicava con questa definizione, io non avrei saputo rispondere altrettanto rapidamente. Ci avrei pensato, avrei fatto un tentativo, forse alla fine ci sarei anche arrivato e, per esclusione, avrei detto il nome giusto, quell’autore di sonetti un po’ nascosto nelle antologie dei miei licei, tra Manzoni Leopardi e i noiosissimi capitoli sul Risorgimento. Ma avrei avuto bisogno di tempo e di incertezze, e già solo questo dice che l’attenzione che gli abbiamo nei decenni dedicata non era l’attenzione sufficiente. O comunque poteva essere di più.
Perché abbiamo il dialetto, insomma:
Uno spettro si aggira per la Penisola. È il sempre disprezzato ma invitto dialetto che, mille volte dato per morto e in effetti sparito dalle strade delle più moderne città sotto una coltre di pudicizia linguistica, ha ripreso a frequentare le librerie. Proprio mentre qualche doloroso compianto si leva per lo stato della lingua italiana – ridotta alle trecento parole dell’uso medio – si rinvigorisce infatti la circolazione del volgare idioma. Non solo le serie tivù lo ostentano per cercarvi un qualche genius loci più credibile dell’astrattezza dei loro caratteri, ma anche la rinsecchita lingua editoriale torna a chinarsi sul dialetto, e proprio nel campo principe della tradizione linguistica italiana, la poesia. Che la salvezza dell’italiano debba venire dall’impresentabile fratello? Sembrerebbe.
Abbiamo la «lingua madre», o almeno quella che per secoli lo è stata e che in molte parti d’Italia lo è ancora. Abbiamo una ricchezza che non solo si oppone allo scarno e grigio italiano delle conversazioni ovvie dei dibattiti televisivi, ma che pure lo percorre e lo vivifica, a nostra insaputa, come acqua fresca che un rabdomante sappia ancora trovare là «dove solo morde l’arsura e la desolazione», avrebbe detto un mio conterraneo, decenni fa. Abbiamo il dialetto e i libri in dialetto e anche le poesie in dialetto.
E ne trovate tanti segnalati in questo articolo di Luca Sebastiani, da cui sono partito: non solo Giuseppe Gioacchino Belli, «il Balzac di Roma», e il suo contemporaneo lombardo Carlo Porta, che fu tanto grande quanto lui e tanto amico di Alessandro Manzoni e anche, lui sì, protagonista delle mie letture di studente immigrato in Milano; ma anche alcuni a noi più vicini e contemporanei, come Pasolini e Zanzotto, e come il sempre commovente Raffaello Baldini. E ci trovate infine anche questa considerazione, che piace a me e che sarebbe tanto piaciuta a Pasolini, perché prende il dialetto e lo fa il nemico dell’omologazione, la lingua scapigliata delle periferie (d’Italia, non solo di Roma), l’energia ancora nascosta sotto l’apparente cenerina uniformità del mondo delle tangenziali e dei non luoghi (in cui, in effetti sì, trecento parole scarne e piatte bastano e avanzano… ma il mondo non è solo quello):
Il bilinguismo italiano è stato il motore della vitalità di una tradizione letteraria che ha nutrito l’artificialità della scrittura con la naturalezza dell’oralità e viceversa, dotando così gli italiani di vivi strumenti linguistici. Questo incrocio proficuo è evidente nella ricerca dei poeti che scrivono sia in lingua sia in vernacolo; in Andrea Zanzotto, In nessuna lingua in nessun luogo, e nel contemporaneo Francesco Giusti, Quando le ombre si staccano dal muro, i quali hanno colto nel dialetto uno strumento per rivitalizzare non più la morta lingua del potere regio o fascista, ma lo stato comatoso dell’italiano capitalistico, sempre più funzionale al mercato e alla sua democrazia, ma inservibile al discorso critico e poetico o all’espressione individuale…
Parliamo una lingua, insomma, ma è un’altra la lingua che parla dentro di noi; e che quindi, intimamente, ci parla e ci dice. A quella, ogni tanto, possiamo segretamente dare ascolto.