Una delle cose che pensavo di fare, qui sull’Oblò, era raccogliere tutte le recensioni al film di Martone su Giacomo Leopardi (che si intitola molto appropriatamente Il giovane favoloso) e di proporle tutte insieme, sperando che collettivamente riuscissero a dire quello che singolarmente io non sono capace di dire (e anche che spingessero qualcuno a vedere il film, per capire e per valutare; e, ancora di più, a rileggere Leopardi, che è meglio di ogni altra cosa; magari le meravigliose Operette morali, ancora prima delle poesie). Poi ho visto questo brevissimo pezzo di un grande critico letterario come Romano Luperini e mi sono convinto che bastasse lui a dire quello che io non sapevo dire. E cioè che la poesia resta comunque (e per fortuna) un linguaggio irriducibile alle immagini e che, per quanto uno sia bravo (come è Martone), c’è sempre qualcosa che sfugge, qualcosa che scivola da sotto, che non si riesce a dire, qualcosa che filtra dove non dovrebbe ed è passato e quando te ne accorgi è troppo tardi (è l’ineffabile, direbbe un critico dantesco come un tempo io volevo essere: è l’ineffabile).
Pertanto vi propongo soltanto la recensione (minima) di Luperini, e rinuncio al resto; sapendo che nemmeno quella dice tutto (nessuno può farlo) ma l’essenziale sì. A questa bella e fulminea recensione, però, aggiungo un articolo di Alessandro Piperno uscito sempre in questi giorni e che parla perlopiù di Flaubert e di Madame Bovary. E che c’entra? C’entra che Piperno parla dello stile di Flaubert, della sua unicità e irripetibilità, e prova a spiegare che cosa sia lo stile di un autore, di un poeta, di un artista. Ecco, mi è venuto in mente mentre lo leggevo, ecco: l’ineffabile è lo stile. E, scusatemi se lo dico così, penso di non sbagliare di molto.
Leopardi, per noi, è una voce, non una persona. Una voce che viene da lontano, da una profondità lirica, filosofica e soprattutto antropologica. Una voce, non una persona che è gobba, infelice, si innamora o si ammala. Non un giovane favoloso, ribelle e inquieto. Martone nel suo film ha tentato coraggiosamente di unire la voce alla persona, ma, nonostante un certo scrupolo filologico e l’accuratezza della ambientazione, dei costumi e della recitazione, il suo tentativo lascia perplessi. Quel giovane che preso da una furia folle abbatte a bastonate l’erba intorno a Recanati o, diventato adulto, tenta goffamente di fare all’amore con una prostituta napoletana cosa ha in comune con quella voce? Anche quando è l’attore protagonista a recitare sulla scena uno dei canti leopardiani, quella voce risuona di necessità fuori campo. Ed è fuori campo perché essa riguarda una zona dell’umano non riconducibile a una biografia, ma piuttosto alla storia dell’umanità, perché, insomma, interroga una verità remota che ha a che fare con le radici del genere umano, con la sua domanda di senso, e con il sacro.
Chi sostiene che bisogna scrivere in modo semplice non è meno stupido di chi dice che bisogna scrivere in modo complesso. Chi dice che bisogna essere leggibili non è meno ottuso di chi dice che bisogna essere illeggibili. Chi dice «questo non si fa», «questo è sbagliato», «questo non va più», chi stila decaloghi sul buon gusto (abolire allitterazioni e cacofonie, dosare avverbi, aggettivi e gerundi, bandire espressioni come «a un tratto», «ciononostante », «chissà»), chi fa battaglie per abolire congiuntivo e punto e virgola, chi le fa per ripristinarli rinuncia per sempre alla possibilità di uno stile. Lo stile è carisma. E il carisma è sempre individuale. Non basta essere grassi come Churchill per vincere la guerra contro i nazisti, ma dubito che senza tutta quell’adipe Churchill avrebbe vinto la guerra. E allora dov’è la fregatura? Se per avere stile basta essere se stessi allora siamo tutti Shakespeare? La fregatura è che non c’è niente di meno spontaneo della spontaneità letteraria. Anzi, la spontaneità è una conquista terribile.