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lieve luce di una parola

Viviamo sospesi, moralmente sfiniti, in attesa di qualcosa che sta al di là del tempo delle nostre giornate, ovvero della speranza che diventa però un concetto rarefatto, poco più di una parola. Speranza di cosa? Di normalità? Forse stavolta ritornare alla normalità non sarà sufficiente, non sarà abbastanza per ricominciare.

Come voi, immagino esattamente come voi, ho letto molti articoli in questi giorni, che parlano di quello che ci sta accadendo, del perché e del quanto e del fino a quando. E non so se anche voi, ma a un certo punto io ho cominciato a smettere di leggere gli articoli che parlano più specificamente del virus, che più scientificamente affrontano il tema del contagio, delle cause e delle conseguenze. Non so, forse per stanchezza, per sfiducia, non li leggo quasi più questi articoli, li abbandono dopo poche righe, lascio stare.

Ho cominciato invece a cercare altro: qualcosa che dicesse come sto io, piuttosto. Qualcosa che mi spiegasse il disagio di non riconoscermi in questa situazione, nelle parole che la raccontano, «guerra» «andràtuttobene» «eroismo» «santità» «iorestoacasa» «apocalisse», qualcosa che mi indicasse parole nuove, nuovi modi per dirmi quello che sta accadendo che si muove informe intorno a me.

Ecco, questo articolo di Michele Silenzi è senz’altro una delle più belle tra le cose che ho trovato; e questo articolo (lo trovate qui, è ovviamente quello da cui ho preso la citazione di apertura) mi ha suggerito la parola limbo, che è una di quelle che andavo cercando, che ancora non avevo trovato. E me l’ha spiegata qui, benissimo:

Questa non è una guerra, è invece, paradossalmente, una sua inversione. Non un momento di esplosione, di lampeggiare di bombe, tuonare di cannoni, rombare di aerei, urlare di corpi lacerati dai colpi di fucile e dall’odio. Al contrario. È un momento di assoluto ripiegamento, di chiusura. È la vera terra desolata, metaforicamente annunciata da Eliot, ora incombente su di noi. L’attraversiamo, la viviamo, la sentiamo. Sterile e vuota come l’aveva immaginata nelle sue visioni moderniste. Un silenzio carico non di riflessioni ma di giorni ripetuti e sempre uguali, scandito dal suono di numeri che significano altri morti, un ticchettare fatto di vite che non sono più. E poi ancora altri giorni sempre uguali, perennemente presenti.

Ed è una parola importante, questa, ma anche una parola con profonde radici letterarie, almeno per me che mi vanto di essere dantista. Perché limbo è subito parola dantesca (lo sa anche Silenzi, che cita il canto IV dell’Inferno, infatti), parola che immediatamente evoca la situazione di Virgilio, autore e guida morale, di Seneca, di Cesare dagli occhi grifagni, di Aristotele «maestro di color che sanno», di tutti quei grandissimi spiriti dell’antichità che, pur grandissimi, non capirono, non seppero, non ebbero e non poterono avere la conoscenza della verità. E vivono nell’ombra, nel buio, per sempre. E forse così ci sentiamo noi, anche.

Ma c’è un altro articolo che ho trovato, in questa strana ricerca di parole che impegna le mie energie un po’ sventate, in questi giorni. Lo ha scritto Pietro Barbetta, che ha avuto il virus e lo ha attraversato, come si attraversa un deserto, come si esce da una selva. Il suo articolo (lo trovate qui) è bello, importante, intenso ed è dantesco anch’esso, secondo me. Anche se Barbetta non cita mai Dante (ma cita altri importanti scrittori) tutto il suo racconto allude a un buio attraversato, a ombre, a una foresta scura, allude a un viaggio dell’io che è anche un viaggio del mondo, tutto il suo racconto è quello di un male come fu il male di Dante e il male che Dante vedeva nel mondo. Leggete qui, per esempio:

Tu stai meglio, ma il virus è ancora là fuori, ti sta aspettando attraverso le moltitudini che vengono contagiate, le moltitudini che ripercorrono quel che è accaduto a te, giorno dopo giorno. L’io perde la propria differenza, si amalgama al mondo, la finestra scompare, perde la luminosità diurna e anche l’ambiguità notturna. Io non sono più io e il mondo non è più il mondo.

L’ho già detto, lo so, mi ripeto, ne sono cosciente. La letteratura aiuta a trovare le parole, per dirci come stiamo (a proposito: come state?). Dirci come stiamo ci aiuta un po’ a stare meglio, a essere nella poca pace che ci è concessa, a vedere la poca luce che possiamo ancora vedere. Oggi ho trovato la parola «limbo»; ho saputo che riguarda me ma riguarda il mondo, da cui non posso ritenermi separato, in nessun modo («nostra vita», «mi ritrovai», ricordate?). Mi attacco a questa parola, questa minima luce, per uscire anche da questa domenica, da questa estranea oscura selva.

Davide Profumo
Davide Profumo
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