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libri vecchi, lingue nuove

In un momento di ricorrenze che ci parlano di Cosa nostra e di giudici, di criminalità organizzata e di stragi, mi sembra bello dire che uno dei libri più interessanti che ho letto quest’anno parla proprio di Sicilia (l’«inconscio» dell’Italia) e lo ha scritto Piero Melati. Lo trovate qui, il libro: si intitola, sciascianamente, La notte della civetta. E a un certo punto vi potrete leggere una riga illuminante, secondo me. Questa:

una terra dove i fatti traslano in leggende e dove la leggenda si traveste da fatto.

(riga che parla di Sicilia ma in fondo parla davvero del nostro inconscio, di ciò che non sappiamo di essere ma siamo e siamo stati.)

Mi è tornato in mente questo bel libro, oggi, non solo per l’ovvietà della ricorrenza (quella di ieri) ma perché ho letto un’interessante intervista che lo stesso autore, Piero Melati, ha rilasciato a un giornalista a proposito di ciò che ricorre, di come lo ricordiamo e di tutta la letteratura che in qualche modo concorre a ricostruire il mosaico del nostro parlare e commemorare i giudici, Cosa nostra e la Sicilia. La quale (e il libro di Melati lo mette in evidenza in modo palese) è soprattutto una terra di racconti e quindi di letteratura, sia essa quella di Sciascia o quella di De Roberto e Bufalino o quella di Tomasi di Lampedusa o, più lontana ma nient’affatto passata, quella di Giovanni Verga. Ed è quindi una lingua, che è necessario decifrare, che è molto complicato decifrare (lo dico per esperienza anche diretta, questa volta).

Ci sono alcune risposte molto belle, tra quelle che dà Piero Melati. Molte spiegano il lavoro Falcone, la differenza tra la sua visione e quella di Sciascia, la radice di quel dissidio così difficile da comprendere. Una di quelle che mi ha di più colpito però è questa, che parla di Peppino Impastato:

La beatificazione è una maledizione, perché rende queste figure estranee a noi. Bisogna pensare al ragazzo normale che in quegli anni aveva in mano una radio libera per dire ciò che non leggevamo nei giornali e che le persone temevano di pronunciare anche nel chiuso delle case. Lo considero in relazione alla radio. Esisteva la necessità di parlare un altro linguaggio. Lui con ironia e coraggio ne costruì uno. E in Sicilia la costruzione di una lingua nuova doveva passare dal rendere pubblica la lotta alla mafia.

Ecco, anche la beatificazione è una lingua (il rischio della lingua che parliamo oggi). Ma ce ne sono molte altre di risposte importanti (le trovate tutte qui), alcune potentissime; immagino che potrete facilmente trovare la vostra e sceglierla.

***

Tra i libri che invece lessi da ragazzo, non ancora quindicenne, ci fu Il nome della rosa di Umberto Eco. Non so quanto compresi di quel romanzo ambientato in un mondo così lontano, che mi metteva di fronte a un labirinto e a una biblioteca, luoghi la cui esistenza era stata per me del tutto inutile fino ad allora (lo rilessi anni dopo, non so quanto ne compresi nemmeno dopo): ma lo amai, forse fu uno dei libri che mi spinse a studiare quello che poi ho studiato (la lingua e la letteratura, appunto), forse in qualche modo fu uno dei mattoni con cui, ragazzo di provincia con pochissimi strumenti intellettuali, imparai a costruire un pezzo della mia lingua nuova.

Ne trovate una storia editoriale qui, oggi. Una lettura che vi consiglio (quella del post, il libro immagino lo abbiate già letto anche voi, anni fa), perché aiuta a capire bene cosa possa essere un «caso editoriale», come nasca, come esploda, come in qualche modo possa avere poco a che fare con la qualità letteraria del libro (benché, lo dico con sincerità, la qualità letteraria del Nome della rosa a me continui a sembrare alta), come ogni volta un libro importante finisca per dare una nuova forma alla lingua che parliamo e che ci parla. Ecco per esempio cosa imparerete:

Il mondo editoriale è convinto che Eco abbia trovato la formula magica per il romanzo di successo. Lo credono tutti, tranne Eco: «Se uno avesse la ricetta del best-seller la venderebbe a tutti gli scribacchini del mondo e guadagnerebbe di più che a scrivere best-seller», dice nel 1983, quando il suo romanzo è in testa alle classifiche di vendita degli Stati Uniti ed è prevista una edizione tascabile da un milione di copie. Il libro ormai è già un successo in Francia, in Germania e in Spagna. L’editore americano che aveva acquistato i diritti per 4.000 dollari confessa di avere rivenduto la proprietà a una catena di tascabili a 550.000 dollari.

E poi anche così:

Nel 1985 sono 170 settimane che il romanzo compare nella classifica dei libri più venduti in Italia. Più ha successo più viene criticato. Secondo Pietro Citati il libro è scritto «in assoluta assenza di ogni talento letterario» e per Beniamino Placido Citati è l’unico a scrivere ciò che in tanti pensano: «Gli altri letterati nostrani lo confidano alla moglie, lo borbottano agli amici, lo scribacchiano come possono. E per spiegare questo successo internazionale tirano fuori tutte le ‘ragioni’ del mondo. Siamo dunque in presenza di una società letteraria che soffre. Che soffre per il successo di uno dei suoi membri».

***

E infine un terzo libro, e infine una delle più grandi invenzioni di lingua di ogni tempo. Un vecchio titolo che ho letto solo in questi giorni, chissà perché. Lo ha scritto Marco Santagata, si intitola Il copista e parla di Francesco Petrarca, della sua poesia, del suo amore, della sua stanchezza, ma anche della sua lingua nuova, quella che avremmo finito per parlare anche noi, quella che in qualche modo sto scrivendo anche adesso. Una storia malinconica e lenta, quella di Santagata. Ma la trovate presentata perfettamente qui, dove potrete leggere così:

Arrivato alle soglie della morte, Petrarca scopre, in una disperazione fredda ma serena, “che l’anima non esiste, che la vita non avrà né premio né castigo”. Nemmeno il riconoscimento di una fama dichiarata universalmente riesce a riscattare la sua intera esistenza dall’insignificanza: la stessa poesia è “labile consolazione”, favola, inganno che allontana dal vero, e l’amore è una costruzione della mente, un abbaglio della fantasia. L’ultimo verso vergato a conclusione della canzone per Laura suona dunque sconfortato e disilluso: “o mondo rio, nulla in te dura!” Ma sarebbe opportuno sconfessare la propria opera, sacrificare la celebrità raggiunta per proclamare al mondo con assoluta sincerità quel suo nuovo orientamento intellettuale, scettico e irreligioso? “Sessant’anni di fatica, di lavoro, di sopportazione, una vita passata a sgusciare tra cardinali, signorotti, papi e imperatori, essere diventato Francesco Petrarca, conte Palatino per merito dell’ingegno, e poi distruggere tutto così, stupidamente, per quattro versi nati dalla fantasia di un ubriaco”.

Non si rinuncia così facilmente alla lingua che si è dolorosamente imparata nel corso di una vita, neanche Petrarca lo sa fare. E ci lascia pertanto in eredità la sua, che diventa la nostra, che è lo strumento a cui ci affidiamo per cercare di capire noi, il nostro modo di amare, il mondo che ci circonda, la terra che abitiamo che l’inconscio di altre terre che abbiamo abitato… E forse ogni pezzetto di questa lingua è una minuscola tessera di una qualche incomprensibile verità, forse è un piccolo tassello di una mappa che ci guiderà dentro il labirinto incomprensibile della biblioteca, forse, ma non lo so.

Davide Profumo
Davide Profumo
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2 Comments

  1. .mau. ha detto:

    Io lessi Il nome della rosa quando uscì Il pendolo di Foucault (che non ho invece mai letto). Secondo me è molto ben fatto, non ci sono dubbi. Però il suo successo è figlio del caso.

    • Davide Profumo ha detto:

      Ma sì, senz’altro il caso c’entra (nel successo a breve termine c’entra sempre). Però, appunto, è ben fatto: lo si legge volentieri anche oggi. Io lessi anche Il pendolo di Foucault e pure quello mi piacque molto.

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