a cosa giovano i gialli
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8 Febbraio 2016Passeggiavo per caso sul lungolago iseano, l’altra sera, e mi sono reso conto che ancora posseggo l’energia di invidiare qualcuno, per futili motivi come possono essere i libri. Per esempio, in questo periodo, invidio molto un mio ex alunno, studente di letteratura all’università di Trento, il quale non molti giorni fa mi ha raccontato che, per prepararsi a un corso universitario che dovrà frequentare in primavera, gli hanno chiesto di leggere tutto il Canzoniere di Petrarca, dall’inizio alla fine, poesia dopo poesia, verso dopo verso. E che lui lo sta facendo, con molte difficoltà iniziali e non poche, invece, soddisfazioni successive.
E io l’ho invidiato. Perché alcune cose difficili (leggere il Canzoniere di Petrarca, come leggere il suo epistolario, o le sue opere cosiddette «minori») si fanno solo se costretti, perché sono appunto assai difficili, e io sono già stato costretto una volta, quando ero giovane, e mi sa che non lo sarò mai più: nessuno, ahimè, mi costringerà mai più a leggere tutte le poesie di Petrarca, una dietro l’altra, e io, temo, non lo farò. Potrei, se fossi un uomo forte e rigoroso, ma non lo sono e, quindi, non lo farò. (In compenso, il ministero e gli altri miei datori di lavoro sparsi per il paese mi costringono a compilare moduli e a imparare a riempire verbali, che dev’essere molto importante, e lo sarà, ne sono certo. E infatti, poiché vi sono costretto, lo faccio.) (Però, esattamente in questo istante, la donna che divide le stanze di questa piccola casa con me, mi ha urlato che se voglio mi costringe lei: il che, conoscendola, potrebbe esser vero, e guarirmi così dall’invidia per i più giovani, meritevoli da me di ben altri sentimenti…)
Ma Petrarca, lo sappiamo bene, lo abbiamo ripetuto inutilmente fin troppe volte, Petrarca è la letteratura. È la decostruzione e insieme la ricostruzione letteraria di sé, la tela mai definitivamente composta del proprio ritratto, l’autoritratto fallito che invecchia senza nemmeno il bisogno di essere altrove nascosto, sotto attoniti e inutili occhi; sono le tessere mai del tutto precisamente collocate della visione caleidoscopica della propria anima e del suo millimetrico vagare per il mondo alla ricerca di una consolazione destinata soltanto agli altri, in quanto migliori ma anche in quanto più ingenui, secondo una mappa che si trasforma ogni istante e che non indica mai, nemmeno una volta nel tempo imperscrutabilmente finito del proprio esistere, la medesima direzione, fosse anche (come Petrarca sa che è) quella sbagliata.
Francesco Petrarca, così trascurato anche dai letterati, mi commuove sempre un po’, forse perché invecchio male, assai peggio di lui, senza il suo talento né la sua ironia, ma mi sembra di comprenderlo ogni giorno di più, e meglio. E nell’epoca che mi è toccata, in cui il fallimento dell’autoritratto è declinato nelle forme più estreme della stupidità e della disperazione (non ho trovato altra parola, mi dispiace), Petrarca mi pare un piccolo bagliore che ancora, nonostante tutto, ci possa illudere di una qualche nostra casuale intelligenza del mondo. Ve ne propongo quindi una scintilla qui, luminosissima, magistralmente raccontata attraverso una sua lettera. Con la considerazione finale dell’autore del post (Viene in effetti da chiedersi come mai il Petrarca scriva al fratello per raccontargli nei particolari una vicenda che il fratello conosce bene, avendola vissuta…) che vale tutto un manuale di storia letteraria. La storia inizia così:
«Cenavo per caso presso quella santissima ed ottima persona che fu il vescovo di Padova Ildebrandino, […] quand’ecco che il caso portò da noi due priori del tuo ordine, uno italiano, l’altro francese.» Comincia così una lettera che Francesco Petrarca scrive al fratello Gherardo, probabilmente alla fine del 13521, per raccontargli del curioso incontro. Gherardo, minore di circa tre anni, aveva infatti pronunciati i voti presso la certosa provenzale di Montrieux (Mons Rivi) nel 1343: «con decisione improvvisa», si trova nei testi, dopo aver condiviso con il fratello poeta studi e spostamenti (compresa la famosa ascesa al Mont Ventoux).
2 Comments
Leggendo, pensando, scrivendo di Petrarca, l’impressione (forse soltanto per me che sono alle prime armi) è quella di procedere su un crinale sottilissimo fra realtà e finzione, senza grosse possibilità di capire da che parte stia l’una e da quale l’altra. L’uomo tormentato del Secretum, il poeta pentito della canzone alla Vergine, ha mai davvero il sopravvento sul meticoloso costruttore del proprio autoritratto? Con che occhi guarda l’autore dei Fragmenta e della lettera familiare all’esito esistenziale di Gherardo? Si può ammettere in lui un qualche rimpianto per la mancata risoluzione alla stessa via di santità del fratello o il Petrarca pentito, combattuto, è solo un tratto di colore irrinunciabile nel ritratto di un intellettuale, pur sempre cristiano, che tanto ha indugiato fra le lusinghe del mondo?
D’accordo, finché sarò lontano dalla stagione dei moduli e questi ed altri pensieri occuperanno buona parte delle mie giornate, una certa dose d’invidia le è senz’altro perdonata. Un caro saluto da un ex alunno che non smette di trovare su queste pagine materia sempre nuova per la sua riflessione.
Troverai risposte ben più serie nella lettura e nelle riflessioni che farai e che sarai guidato a fare, non ne dubito.
La mia semplice impressione resta che in Petrarca realtà e finzione si incontrino e si riconoscano a vicenda sempre e soltanto sul terreno della “parola” poetica, unico possibile aggancio al cielo, unica possibile scintilla nel buio della mortalità – non verità ma almeno approssimazione accettabilmente umana di una verità cui in nessun modo a noi, così piantati sulla terra come lui, sia dato di attingere. Francesco apre la porta a un nuovo mondo che non abbiamo ancora finito di esplorare e misurare con i nostri passi. Oltre a questo poco, te lo dico senza nemmeno l’invidia del tempo che hai (eh, si scherza…), oltre a ciò non sono mai stato capace di andare.