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leggere le storie degli uomini che soffrono

Scrive Anatole Broyard: “un ospedale è pieno di storie meravigliose e terribili e io, se fossi un dottore, le leggerei come si legge un bel romanzo, lasciandomi istruire”. E non vale, io credo, che mi rispondiate che sto esagerando, visto che un qualsiasi luogo della terra (un aeroporto, per dire, o un supermercato) è altrettanto pieno di storie. Non vale, perché quello che stiamo cercando di dirci oggi è che è la malattia stessa a configurare e a dare forma al racconto: in quanto cambiamento di stato, in quanto evento, in quanto metamorfosi che chiede al soggetto ammalato (e anche al medico, che siete voi) un ordine possibile di ciò che sta accadendo, una trama, un prequel e un sequel, cioè appunto il racconto di se stessa.

 

Le scrivo, queste cose di cui sono convinto da molto tempo (e di cui da molto tempo parlo a voce con alcuni di voi cardiologi), perché c’è sul web un breve excursus sulla malattia nella letteratura che vale la pena di essere letto e che può funzionare anche come primo passo per la lettura del nostro «stare male». Lo hanno scritto Andrea Tomasini e Damiano Abeni (buona notizia: è solo il primo articolo di una rubrica destinata a proseguire), vi si parla di Virginia Woolf, come di T.S. Eliot e di Thomas Mann (insomma, non siamo nell’ambito di autori minori, questo volevo che sapeste); e a un certo punto dice così:

 

La narrazione della malattia fa di quest’ultima un testo collettivo in cui soggetto e mondo partecipano di ponti relazionali culturali e simbolici che conferiscono significato a sintomi e malattia… La medicina narrata racconta di questo interesse per l’esperienza della persona rispetto alla pur necessaria e fruttuosa ascesa della medicina basata sulle evidenze scientifiche meccanicistiche. In qualche modo, la medicina narrativa recupera il senso dell’agire medico, che è un agire tecnico dotato di senso: a partire dai dati – relativi sia alla patologia/disease che allo stare male/illness – si devono interpretare le necessità dell’ammalato e adattare le evidenze scientifiche al caso specifico che il clinico ha davanti. Sia il medico sia il paziente si confrontano su una realtà rappresentata, che si origina da due esperienze e da due punti di vista differenti che, se pure non infrequentemente si scontrano, debbono trovare il modo di armonizzarsi per produrre esiti positivi – soggettivamente e socialmente –.

 

E mi è quindi molto piaciuta questa necessità di tenere insieme medicina e letteratura: il bisogno medico di sapere che la malattia è racconto della malattia, prima ancora che essere se stessa. E che, in tale racconto, la malattia trova il suo ordine, la sua strada; la quale non sarà necessariamente guarigione (speriamo di sì) ma che è comunque già il senso che le stiamo dando, mentre la sentiamo e la temiamo e la viviamo dentro di noi.

 

E avrei anche finito, che mi pare già molto. Ma è domenica e (quando posso, chissà se ve ne siete mai accorti) mi sono preso il silenzioso e superfluo impegno di citare un libro di poesie, che magari oggi pomeriggio piove e le partite alla tv non sono molto interessanti; e che magari le poesie non sono racconto di una malattia ma ne sono il sintomo, oppure il sintomo e la cura insieme, misteriosamente, per questa specie di prodigio che ce le fa amare e anche un po’ temere, le poesie…

 

E oggi sono fortunato, perché ho un bel libro di poesie da consigliarvi, il prossimo che io stesso comprerò. È una raccolta, il miglioro modo per avvicinarsi a una delle più interessanti voci poetiche italiane contemporaneee. Si intitola Le cavie (gran bel titolo) e propone i versi di Valerio Magrelli, che altre volte abbiamo avuto il piacere di citare in queste mattine festive. La trovate presentata qui, insieme a una piccola selezione di testi, tra i quali mi sembra molto bello e pertinente citare oggi questo, che si intitola Rosebud e ha un inizio montaliano e cita (fin da subito) il nostro cuore:

 

Non pretendo di dire la parola
che scoccata dal cuore traversi
le dodici scuri forate
fino a forare il cuore del pretendente.
Io traccio il mio bersaglio
intorno all’oggetto colpito,
io non colgo nel segno
ma segno ciò che colgo, baro,
scelgo il mio centro dopo il tiro
e come con un’arma difettosa
di cui conosco ormai
lo scarto, adesso
miro alla mira.

Davide Profumo
Davide Profumo
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