CardioPRevent@riab.it: una sintesi dei lavori
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2 Novembre 2015Le ricorrenze, si sa, ci inseguono come i predatori affamati, e non ci danno pace, ed evitarle è quasi più faticoso che cedervi e abbandonarvisi, tanto che non di rado lasciamo fare anche alle ricorrenze e ci diciamo che sì, questo è un anniversario dantesco, un giorno o l’altro riprendo in mano la «Divina commedia» e me la leggo. Poi però passa il giorno (e passano anche gli altri) e passa la ricorrenza e Dante non lo leggiamo più: e arriva un’altra ricorrenza da celebrare degnamente, a inseguirci come un lupo affamato, e noi facciamo un altro buon proposito, per il futuro che giunge e per il passato che sarebbe così triste non celebrare.
Le ricorrenze, si sa, sono un piatto prelibato soprattutto per chi se ne occupa; perché ricorrenza significa celebrazione e celebrazione significa gioia e applausi e quel po’ di vano successo per il celebrante, e quasi nulla per il celebrato. Anche per questo avevo deciso che di Pasolini, oggi, nel quarantesimo anniversario della sua morte, che dovrebbe essere una delle date meno rilevanti della sua vita, ma che è invece l’unica che ricordiamo sempre con estenuante precisione, avevo quindi deciso che non avrei scritto nulla. Lo hanno fatto già altri, sui giornali, lo faranno anche nei prossimi giorni. E per lo più lo hanno fatto come sempre si fa nelle ricorrenze: celebrando se stessi invece del celebrato, elogiando il proprio («commosso») ricordo di lui invece che studiando lui, adorando il fantasma che si sono costruiti di lui invece che provando a comprenderlo, o addirittura criticandolo e dichiarandosene definitivamente stanchi, lui che non può nemmeno controbattere, perché appunto, in una notte di quarant’anni fa, è morto.
Però poi mi è venuta in mente una cosa semplice semplice che scrisse qualche anno fa un amico mio, che conosce bene la letteratura e il cinema di Pier Paolo Pasolini. Che come tutte le cose semplici semplici è anche un po’ più intelligente di molte altre vane celebrazioni e dice la cosa che avrei voluto dire appunto io oggi e che dirò tramite lui. La cosa semplice è questa, ed è l’unica celebrazione possibile, secondo il mio amico e anche secondo me:
Ma io mi chiedo: ma voi, Pier Paolo Pasolini, l’avete mai letto? Cioè, voglio dire, voi, oltre alle “Lettere luterane”, agli “Scritti corsari” e alle solite due o tre poesie che oramai sono stampate anche sulle scatole per le pizze d’asporto, avete mai messo il naso tra le pagine di altri suoi libri? E avete mai visto un suo film? Io sì, io ho letto tutto e ho visto tutto. Spendendo un sacco di soldi ho comprato i Meridiani che raccolgono i saggi politici, i saggi sulla letteratura e sull’arte e poi ho comprato tre volumi Garzanti che raccolgono tutte le sue opere teatrali e poi ho anche un cofanetto con una buona parte dei suoi film in dvd e poi ho altro materiale da persona un po’ malata, noiosa, fissata e anche un po’ squilibrata. Vi dico questo non per vanto, ci mancherebbe, anche perché alla fine non è che abbia apprezzato tutto e poi non è che in testa mi siano rimaste tutte le sue pagine e tutte le scene dei suoi film. Però, com’è che a me non me ne frega niente delle circostanze che hanno portato alla morte dello scrittore?
Ecco, forse basterebbe già questo. Ma siccome sono anche io inseguito (e catturato, e divorato) dalle ricorrenze, non mi è sfuggito che su un sito web che amo sono uscite in questi giorni alcune interviste rilasciate proprio da Pier Paolo Pasolini, quando era vivo. Le segnalo qui, perché sono parole del poeta e quindi sono già un primo modo di leggerlo davvero (invece di leggere gli elogi autocelebrativi dei celebranti). E anche perché, come succede spesso con Pasolini (ed è per questo che non sono riuscito a tacere di lui), le parole che egli dice sono bellissime, acute, incisive, puntuali, millimetriche, chirurgiche. Da leggere insomma, qui:
La tolleranza è la peggiore delle repressioni. Il peso del potere classico creava situazioni estreme, che l’uomo viveva con tutto se stesso: o rassegnandosi, fino a forme di santità, o ribellandosi, fino a forme di eroismo. I diversi, i perseguitati, gli esclusi, vivevano la loro condizione umana come una tragedia: ma questa tragedia non li umiliava. La tolleranza smussa gli estremi e riporta tutto nel mezzo, omologandolo. Certi fatti e certi uomini non possono essere ridotti alla normalità? Ebbene, cataloghiamoli, facciamo un dialogo, comprendiamoli, dice il Potere tollerante. Così facendo crea dei ghetti diversi, ‘nominati’: e dà loro il permesso di esistere! Cosa c’è di più umiliante? Nel mezzo, nell’immensità della maggioranza silenziosa, il dovere è quello di assomigliarsi tutti.
Il successo non è niente. Il successo è l’altra faccia della persecuzione. E poi il successo è sempre una cosa brutta per un uomo. Può esaltare, al momento, può dare delle piccole soddisfazioni a certe vanità, ma in realtà, appena ottenuto, si capisce che è una cosa brutta.
[E infine, per non farvi dimenticare che ci piace essere sempre un po’ cattivi e che quasi la riteniamo una piccola forma di inutile resistenza contro la bruttezza, vi indico anche uno di quei ricordi autocelebrativi che io personalmente ritengo così inutili da essere vergognosi. Lo trovate anche lui sul sito Doppiozero, qui. Leggetelo, se avete voglia. E guardate se non è vero che sono articoli, quelli come questo, in cui non si celebra nessuno se non, maldestramente, colui che sta scrivendo; che usa lo scomparso per fare bella mostra di sé. Alla ricerca magari di quel po’ di vano successo…]