una lontanissima voce
17 Febbraio 2019tornare
24 Febbraio 2019Febbraio è un mese di gesti, e anche (si sospetta, magari anche) di prodigi. Lo è perché negli scarti di febbraio intravvediamo la primavera, che ancora non trova il coraggio di bussare; e lo è perché febbraio si lega, non so perché ma so che è così da sempre, ai gesti di due tra gli uomini di sport che ho più amato, nel corso degli anni in cui ho guardato lo sport, dal vivo o in televisione (ce n’è un terzo, di uomo di sport, che non potrò mai dimenticare: è Ayrton Senna e non ha niente a che fare con febbraio e i suoi prodigi: ma è nato il 21 marzo, che è il giorno, ovviamente, in cui davvero arriva la primavera).
Febbraio è un mese di gesti, dicevo: e il primo di quei gesti è uno scatto, uno sguardo, una bandana che vola via, un tornante, un addio, uno scivolamento imprevedibile e inatteso sul lato della strada in salita. Così io mi ricordo di Marco pantani, che è morto il 14 febbraio di qualche anno fa. E sul web ho letto due brevi ricordi di Pantani che mi è sembrato bello segnalare qui, a dirmi che la letteratura è anche nelle cose, a volte, nelle parole che raccontano i gesti di chi forse la poesia non l’aveva nemmeno mai pensata. Il primo ricordo lo ha messo in parole Giovanni Fontana, racconta di un incontro lontano con una fotografia di Pantani e e a un certo punto dice così:
Volevo farle altre domande, ma non sapevo che domande farle. Quando le ho chiesto che tipo era, Alessandra mi dice «non lo so, lui non parlava molto», dimostrando che in fondo lo sa, senza neanche sapere di saperlo, che tipo era.
Il secondo ricordo lo ha scritto Gianni Montieri e parla proprio del gesto, quel gesto indescrivibile che è la storia stessa di Pantani. E dopo averlo splendidamente descritto (andate a leggerlo, mi darete ragione) conclude così:
Non mi piace la neve, non ho mai sciato, da quando Pantani ha smesso di andare in bici ho scordato le montagne.
Ecco, sì, anche io, come lui, ho scordato le montagne, da quando è morto Pantani. E un po’, da quando Baggio non gioca più, ho scordato anche i campi da calcio, le partite le guardo in tv, se capita, allo stadio non mai più avuto voglia davvero di andarci. Perché nel mese di febbraio di una cinquantina di anni fa, è nato Roberto Baggio, autore dell’altro gesto, una strana partenza da fermo, uno strano movimento di un ginocchio sfasciato dalle operazioni e che però buttava all’aria qualsiasi metrica dei movimenti con il pallone, l’altro gesto che febbraio, ogni anno, mi riporta alla mente. Faccio mie le parole di Davide Brullo, questa volta:
Roberto Baggio è l’inatteso che irrompe nella norma e la rompe in virtù del sublime. Se vi capita di rivedere una partita di Baggio capite che a un certo punto, dalla palude dei passaggi onesti e delle sincere ‘sgambate’, accade qualcosa. Come se il calciatore fosse ‘chiamato’, come se agisse per tramite di una divinità. Eccola la ‘magia’ – il gol inesplicabile – il passaggio incredibile. E Baggio che esulta con pudore, come chi sa che ha editti biblici nei piedi e la Bhagavadgita nelle caviglie di cristallo.
Ma il più prodigioso dei gesti di febbraio è, per me, ogni anno, quello che i gesti di questi uomini mi fanno tornare alla mente. Ed è una poesia, la più ovvia, la più scontata, la più orrendamente analizzata (a scuola) delle poesie (forse soltanto dopo L’infinito di Leopardi, povero lui…): ma che i gesti riescono a rivitalizzare… Una poesia che parla appunto di uno scarto laterale, di un prodigio, di qualcosa che si rifiuta di stare al suo posto, di chi rompe la metrica e se ne sale via, chissà dove; e delle nostre bocche aperte che rimangono a guardarlo:
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.