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le città visibili

Al centro di Roma non ci vado mai. È un posto lontano, faticoso, difficile da raggiungere. Da dove abito, dista cinque chilometri che sembrano cento. Arrivarci è ogni volta un viaggio che alla fine del giro non vale la pena. A cosa può servirmi mai, il centro? È regolato da leggi che di volta in volta si rivelano ambigue, sleali e disoneste, e all’interno del suo perimetro non succede mai niente di interessante. È popolato in massima parte da gente che o vi viene deportata per biechi motivi burocratici e lavorativi, o sembra rintanata in una specie di iperuranio noioso e stantio. Del Colosseo non me ne è mai fregato niente. Crollasse oggi, sarebbe un grosso dramma per l’Unesco, una curiosa stranezza per il sottoscritto. Forse addirittura tirerei un sospiro di sollievo.

Ho letto queste righe, ieri pomeriggio, e ho subito pensato che è di questo che vorrei sempre più spesso parlare (anche quando parlo di libri e di poesie). Di quello che sta accadendo sotto i nostri occhi alle nostre città (nostre, intendo, dell’Europa; ma forse di più: nostre del Sud dell’Europa, quella parte di vecchio mondo che dovrebbe imparare a «vivere di turismo», il «nostro petrolio», ci siamo capiti). Ho letto quelle righe di cui sopra e poi sono andato avanti, ne ho lette altre, sempre dello stesso articolo scritto da Valerio Mattioli, e mi sono piaciute anche queste:

Di fatto, la Roma che conosciamo – la Roma di Romolo, la Capitale, il centro che tronfio si crogiola nel mito posticcio della Grande Bellezza – è poco più che uno sputo sulla mappa: appena l’1 per cento dell’intero territorio comunale, recitano i registri locali. Il restante 99 per cento è, per l’appunto, non-centro, o se vogliamo periferia. E se la periferia è il contrario del centro, va da sé che questo 99 per cento non può che essere il contrario di Roma: una città parallela e invertita rispetto a quella che da Romolo discende. A chi dobbiamo allora la fondazione di questo negativo occulto, di questa aberrazione geografica, di questa città al tempo stesso invisibile e reale, mostruosa nelle forme perché ciò che è nascosto non può che tradursi in orrore e spavento?

Ecco, l’articolo è bello (lo trovate qui) e pone diversi problemi di lettura del mondo (a questo servirebbe anche un po’ la letteratura, secondo me, a leggere un po’ il mondo). E si pone in fondo sulla stessa linea di un libro importante, uscito in Italia un mese fa e scritto da Sarah Gainsforth. La quale racconta davvero la metamorfosi delle nostre città, il nuovo volto dei centri storici divorati dagli affitti brevi, la disgregazione che ne consegue, i mutamenti che abbiamo soro gli occhi e ancora non riconosciamo e che non sappiamo dove e che cosa ci porteranno. Leggete qui, per esempio:

Il centro storico ha perso la molteplicità di usi e funzioni, specializzandosi come un «omogeneo consumistico». Negozi di souvenir, ristoranti, piadinerie, toasterie, creperie, birrerie, minimarket, fast-food, depositi per valigie, hanno sostituito le attività storiche e artigianali, i banchi dei mercati rionali, e i negozi necessari alla vita di tutti i giorni. Vicolo del Cinque, un tempo l’«isola povera» del rione, è un tappeto di tappi di bottiglia incastrati tra i sampietrini. Pulmini neri dai vetri oscurati si fanno strada tra fiumi di persone, scaricando i turisti direttamente ai tavolini dei ristoranti. I giovani, che non possono abitare a Trastevere per i prezzi troppo alti delle case, arrivano qui da tutta la città, in particolare il mercoledì sera, quando gli shottini costano un euro.

Ci sono molte maniere, lo so, di raccontare questo cambiamento (c’è anche questo, ho letto anche questo libro ultimamente, ci ho trovato spunti inquietanti e interessanti). Ci saranno i modi apocalittici e anche quelli integrati, ne sono certo, Ma sono certo, ancora più certo, che la letteratura oggi, se ha un senso, debba proprio fare lo sforzo di raccontare questo: come stiamo cambiando il paesaggio intorno a noi, le città, le strade, i centri storici dove un tempo abitavamo o speravamo di abitare, le case dei nostri vicini di casa, gli incroci, i bar dove prendevamo il caffè e ci chiedevamo «come va?», ecco, appunto: «come va?», a questa domanda ogni tanto dovrebbe cercare di rispondere la letteratura, se ci riesce. È ambientalismo anche questo; forse più dell’altro. Ma è più difficile, perché riguarda il pezzo di strada che abbiamo sotto casa, non la foresta pluviale amazzonica, così bella così lontana…

[Un libro che lo fa, che racconta (anche) la strada sotto casa e come cambia, c’è. Lo ha scritto Francesco Pecoraro e si intitola Lo stradone; penso che possa valere come consiglio per questa domenica che comincia.]

Davide Profumo
Davide Profumo
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