stupefazioni
9 Marzo 2017il nostro morso d’immortalità
15 Marzo 2017Le ali non le abbiamo, e questo basta ampiamente a spiegarmi il perché le vogliamo, ne parliamo, ci raccontiamo storie di labirinti e di fughe e di cera che si scioglie e di superbia che ci fa precipitare, e di viaggi nell’aria e di gabbiani. Le ali dunque le desideriamo. Per volare via, per alzarci verso il cielo, come il falco alto levato, il zigzag degli storni sui battifredi (non a caso «mie sole ali») come per fuggire dalla gabbia della nostra esistenza sulla terra, per cercare un altrove, oltre questa prigione incomprensibile, per librarci leggeri, per esserlo, leggeri, alla ricerca di altri mondi, le ali dell’intelletto, si dice anche così, ma non è vero, perché le ali non le abbiamo, questa è la verità.
E però, nonostante tutto questo inevitabile desiderio, se pure mi spiego bene le ali del falco (e la voglia che abbiamo di loro) e anche quelle del gabbiano, molto meno (lo dico francamente) mi spiego quelle della farfalla. Quelle ali leggere, inutili, provvisorie ed effimere, quella fragilità di ali che non portano da nessuna parte, ali come bellezza inutile, come un vezzo, o un vizio assurdo, ali come l’inutile orpello di una primavera che passerà, che sta già rapidamente passando.
Oppure sì, me le spiego, ma è una spiegazione deludente, ed è la solita. Le ali del gabbiano sono quelle dell’aereo, sono il cielo e poi lo spazio, gli altri mondi, l’astronomia, la scoperta di chissà cosa di lontanissimo. Le ali della farfalla, invece, quelle sono le povere ali della bellezza, del racconto, della poesia, della minima follia che ci resta (alla fine capirete anche questo, secondo me). Ecco perché ho molto amato, stamattina, che è primavera di fiori colori e farfalle, questo strano pezzo scritto da Mario Raviglione che inizia con il verbo «decifrare» e prosegue con racconti sempre più particolari e poi ci lascia lì, tra farfalle comuni che non sapevamo nemmeno di guardare curiosi e di desiderare. Il pezzo comincia così:
Mi è difficile decifrare negli anfratti più lontani della memoria i primi ricordi di farfalle, quelli precocissimi che anticipano la coscienza delle vanesse che osservavo con mio nonno sulle sterrate miaglianesi. Avverto questi ricordi come macchie indistinte e primordiali. Ma, nella memoria, sono macchie bianche e quasi certamente furono quelle delle cavolaie, le comunissime farfalle candide e banali che si vedono un po’ ovunque da noi e in generale in Europa e nell’emisfero nord. Solo che erano talmente banali che nessuno ci faceva caso. Povere farfalle trascurate e neglette che raramente compaiono nei dipinti o nelle poesie!
E poi cita ovviamente Guido Gozzano, che fu il fragile poeta delle farfalle fragili. E poi cita altri versi ma non quelli a cui subito ho pensato io. Che sono invece versi di Montale, difficili e bellissimi; e anche fragili. E che ora, prima di riportare qui sotto come è giusto che io faccia in questa domenica mattina di fiori e sole e primavera (non potete immaginare, secondo me, cosa sia la primavera siciliana: non potete immaginarlo come non potevo io, fino a pochi giorni fa…), vi confesso che sono versi di cui non riesco più fare a meno; perché non so più guardare una comune farfalla bianca senza pensare a questi versi e, in sostanza, senza pensare al senso ultimo della bellezza, della fragilità, della prigione che abitiamo da cui vorremmo sempre fuggire, senza pensare al nostro, al mio desiderio delle ali. Che è un guaio, ne converrete.
L’estate
L’ombra crociata del gheppio pare ignota
ai giovinetti arbusti quando rade fugace.
E la nube che vede?Ha tante facce
la polla schiusa.
Forse nel guizzo argenteo della trota
controcorrente
torni anche tu al mio piede fanciulla morta
Aretusa.
Ecco l’òmero acceso, la pepita
travolta al sole,
la cavolaia folle, il filo teso
del ragno su la spuma che ribolle –
e qualcosa che va e tropp’altro che
non passerà la cruna…
Occorrono troppe vite per farne una.