l’irrealtà
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16 Ottobre 2015Scrivere una recensione a un libro parlandone bene non è granché difficile, secondo me. A seconda del genere del libro, basta usare alcune parole chiave: «intenso» per esempio oppure «suggestivo» vanno piuttosto bene, così come «inquietante» o «profondamente commovente»; o anche, se il genere fosse più realistico, scrittura che «incide la carne viva della cronaca e della storia» per così dire, «crudele» «spietato» «feroce» «tagliente come una lama» saranno perfetti; o ancora, se invece si tratta della «sorridente ironia» con cui si dipinge una «umana commedia», «spassoso» sarà ben accetto, ma pure «scoppiettante» così come «vulcanico» ed «effervescente»; e, in casi estremi, se proprio non si fosse nemmeno capito a quale genere appartenga il libro (accade con molti titoli, ahimè), «dolceamaro» o «agrodolce» andranno sempre benissimo; così come «malinconicamente ironico» o «ironicamente malinconico», a seconda di quello che vi viene e in mente prima.
È così, insomma: scrivere una recensione di un libro parlandone bene è facile, così facile che è più facile farlo senza neppure leggere il libro, come fanno quasi tutti. Che poi, una volta letto, ci vuole invece un bel po’ di pelo sullo stomaco a usare certe espressioni e certi toni comprensivi…
Difficile, invece, molto difficile è scrivere una recensione che faccia venire voglia al lettore (della recensione) di diventare anche lettore del libro, e quindi di comprarselo. A me è successo con una recensione scritta in questi giorni da Paolo Nori, che vorrei definirvi «spassosa» e «scoppiettante» ma ormai, come ban capite, non posso più; e ho pertanto pensato che valesse la pena di segnalarvela, non tanto per la bellezza del libro (che non lo so ancora, se mi piace) ma proprio per la recensione in sé, che è bellissima. E spero, non essendo un bravo recensore di libri, di essere un bravo recensore di recensioni, e che voi adesso clicchiate su questro link e andate a leggervela tutta d’un fiato; che comincia così:
Kari Hotakainen è uno scrittore finlandese nato nel 1957 il cui primo romanzo, pubblicato in Finlandia nel 1991, è una biografia di Buster Keaton. Il suo primo romanzo tradotto in italiano si intitola Colpi al cuore, e è la vera storia di come è stato girato Il padrino di Francis Ford Coppola, che, si scopre nel romanzo, siccome la produzione aveva paura delle rappresaglie della mafia, han preferito non girarlo in Sicilia e han deciso di girarlo in Finlandia per la nota somiglianza del paesaggio finlandese con quello siciliano.
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Se invece aveste tempo e voglia di affrontare un argomento un po’ più serio, oso proporvi questo intelligente intervento di Tomaso Montanari a proposito di come si studia la storia dell’arte nelle scuole italiane e di come questo modo di studiarla sia un danno incalcolabile per il nostro paese. Lo stesso discorso si potrebbe fare, negli stessi identici termini, per la geografia: che è ignorata, sbeffeggiata, trascurata da tutti quelli che poi non sanno dove si trovano la Catalogna o la Siria o il fiume Calore (sto citando notizie delle prime pagine di questi giorni). Montanari, i cui libri sono tra i saggi più interessanti pubblicati in questi ultimi anni, scrive così:
L’obiettivo finale dell’insegnamento scolastico della storia dell’arte dovrebbe essere mettere in grado i cittadini italiani di camminare per un quarto d’ora nella loro città rendendosi conto (anche solo grosso modo) di ciò che li circonda. Se alla fine del ciclo scolastico, i ragazzi avessero il desiderio e gli strumenti per farlo, per così dire, in automatico, quotidianamente, sarebbe un successo strepitoso: anche se non sapessero nulla di Leonardo, Caravaggio o Van Gogh. Una simile capacità equivale ad aprire gli occhi: ad accendere la luce nella casa in cui abitiamo da anni al buio perché non abbiamo mai avuto il desiderio di vederla.
Entrare in un palazzo civico, percorrere la navata di una chiesa antica, anche solo passeggiare in una piazza storica o attraversare una campagna antropizzata vuol dire entrare materialmente nel fluire della Storia. Camminiamo, letteralmente, sui corpi dei nostri progenitori sepolti sotto i pavimenti, ne condividiamo speranze e timori guardando le opere d’arte che commissionarono e realizzarono, ne prendiamo il posto come membri attuali di una vita civile che si svolge negli spazi che hanno voluto e creato, per loro stessi e per noi. Nel patrimonio artistico italiano è condensata e concretamente tangibile la biografia spirituale di una nazione: è come se le vite, le aspirazioni e le storie collettive e individuali di chi ci ha preceduto su queste terre fossero almeno in parte racchiuse negli oggetti che conserviamo gelosamente. Non per annullare le differenze, in un attualismo superficiale, ma per interrogarle, contarle, renderle eloquenti e vitali. Il rapporto diretto col palinsesto del contesto artistico italiano può liberare i ragazzi dalla dittatura totalitaria del presente, contrastando l’incessante processo che trasforma il passato in un intrattenimento fantasy antirazionalista: dal Codice da Vinci a trasmissioni come Voyager, passando per un’ampia quota delle Grandi Mostre e attraverso le cosiddette pagine culturali dei massimi quotidiani italiani.
L’esperienza di un brano qualunque del patrimonio storico e artistico va in una direzione diametralmente opposta. Perché non ci offre una tesi, una visione stabilita, una facile formula di intrattenimento (immancabilmente zeppa di errori grossolani), ma ci mette di fronte a un palinsesto discontinuo, pieno di vuoti e di frammenti: il patrimonio è infatti anche un luogo di assenza, e la storia dell’arte ci mette di fronte a un passato irrimediabilmente perduto, diverso, altro da noi.
Il passato artistico raccontato sui manuali e spiegato in aula è rassicurante e finalistico. Ci sazia, e ci fa sentire l’ultimo e migliore anello di una evoluzione progressiva che tende alla felicità. Il passato che possiamo conoscere attraverso l’esperienza diretta del tessuto monumentale italiano ci induce invece a cercare ancora, a non essere soddisfatti di noi stessi, a diventare meno ignoranti. E relativizza la nostra onnipotenza, mettendoci di fronte al fatto che non siamo eterni, e che saremo giudicati dalle generazioni future. La prima strada è sterile perché ci induce a concentrarci su noi stessi, mentre la seconda via al passato, la via umanistica, è quella che permette il cortocircuito col futuro. E solo la conoscenza diretta del palinsesto del patrimonio permette di scoprirne la funzione civile.
2 Comments
Le mie recensioni non sono scoppiettanti né fan venire voglia di leggere i libri, ma garantisco che le scrivo dopo averli letti fino in fondo!
Eh, però, tu sei proprio la classica persona che fa eccezione, secondo me; e quindi sei anche un recensore del tutto sui generis…