i ritagli di febbraio
2 Marzo 2018Purtroppo il cervello sanguina…
6 Marzo 2018Mi piace quest’idea (mi piace oggi, proprio oggi, nel giorno in cui ci guardiamo intorno e sappiamo che dovremo al più presto cercare di capire che cosa sia il popolo, che cosa voglia, davanti a cosa si indigni e perché voglia cambiare e rottamare tutto, senza pace né pazienza, tutto e subito, ogni volta…): mi piace l’idea dello scrittore e traduttore bravo che va nei circoli di lettura di una provincia, non lontanissima dalle circoscrizioni 1 delle nostre città, e si imbatte nei lettori (che non saranno poi troppo dissimili dagli elettori… se non per quella vocale, infatti). Che non sono gli ignoranti con le mazze e gli slogan truci e i cortei minacciosi, capiamoci. Ma che sono proprio i suoi lettori, la gente che ha la curiosità di prendere in mano un libro, un classico addirittura, e di leggerlo, per cercare di migliorare un po’ se stessa addirittura, pensando sia giusto farlo. anche lontano dal centro.
È quello che è accaduto a Marco Rossari e che lui ha raccontato su queste pagine. E secondo me dice alcune delle cose che non riusciamo magari a dirci oggi, perché la provincia ci pare lontana, anche quella milanese, e perché il Sud ci pare addirittura lontanissimo (un posto di mare e cibo buono e gente ospitale), mentre è qui, dietro l’angolo di casa mia, insofferente e così poco comprensibile e pieno di voglia (ogni volta) di cambiare tutto. Rossari per esempio racconta così:
Chi sono dunque? Come ragionano? Loro, loro, loro – come i cattivi immaginari inventati dalle menti paranoiche. Non tanto i lettori (pseudo)evoluti che usano il web, imbrattando di hashtag il paesaggio editoriale. No, il lettore nudo e crudo, solo e ramingo, un campione casuale ma indicativo di cinquanta persone il cui unico social era la biblioteca del borgo. […]
Come immaginavo, loro avevano un rapporto molto più diretto con il libro. La devozione, la fiducia nel personaggio faceva impallidire il “character is plot” fitzgeraldiano: il personaggio non era azione, come mi aveva gridato Fernanda Pivano ai tempi dell’università, ma una cosa reale; che dico, un amico; insomma, un tizio che passava di qua. «La Bovary, bah». «Non provi niente per lei?». «Che devo dire? È una cretina». (Ma anche Gadda, su Ofelia: «Una povera oca».) Arrivando a Fëdor Dostoevskij, tutti hanno convenuto infastiditi che i personaggi avessero qualche problema. «Be’ certo – ho fatto io – altrimenti non avremmo il romanzo». Mi hanno fissato straniti. «No, dico: è il problema, come lo chiamate voi, a smuovere le cose. Se Raskol’nikov non accoppa la vecchia, addio Delitto e castigo. Se i suoi personaggi non avessero questa febbre, saremmo in una commedia all’italiana». Con pragmatismo molto lombardo e poco pietroburghese, i loro sguardi dicevano: «E allora questo renderebbe Raskol’nikov meno delinquente?». A risolvere l’impasse, il geometra è sbottato: «Comunque le donne sono tutte gattemorte!». E il pandemonio è ricominciato, con io che cercavo di mettere ordine.
E poi va avanti, e conclude con una piccola nota umana che mi ha fatto apprezzare molto tutto il suo racconto; e me lo ha fatto sembrare assai più bello di quello che all’inizio mi sarei immaginato.
Ma c’è comunque un post che mi è piaciuto ancora di più tra quelli che ho letto oggi sul web. Mi ha fatto venire voglia di fare a tutti una domanda, un po’ strana, impertinente e del tutto inutile: la prima volta che avete assaggiato un kiwi, ve la ricordate? Io sì, perfettamente. Era un giorno di gennaio del 1990, vivevo a Milano in una brutta casa di ringhiera con altri tre studenti, uno di loro aveva un giardino in Piemonte e ci portò un sacchetto con quegli strani frutti dentro. Non li avevo mai assaggiati, vinsi la mia diffidenza, li assaggiai. Fu bellissimo. Ne mangiai una dozzina, tutti insieme. Scoprii un sapore, un mondo, una gioia. A tutti noi è successo: magari non proprio con i kiwi, magari con un odore, un colore, un vento, una consistenza, una parola, un sorriso. Magari con un bacio o con l’amore. Magari anche con un libro, o una poesia. Ecco oggi (grazie a Mauro Zucconi) ho ripensato a quella gioia. E ho deciso che stamattina vinco la mia diffidenza, adesso esco di casa, ascolto il vento, le voci delle persone, i loro commenti sul fatto che finalmente tutto cambierà, anche qui, nella provincia di tutto lontana da tutto, dove il cibo è buono e non è mai cambiato niente, chissà da quanti inutili decenni. Farò il contrario di quello che farei se rimanessi a casa a guardare il web; proverò, come Marco Rossari, dopo tanti anni che scuoto scocciato la testa, a farmi piacere un po’ di più i lettori.