Qual è la terapia antitrombotica ottimale nei pazienti con fibrillazione atriale e malattia coronarica?
23 Ottobre 2018100%
28 Ottobre 2018A dire quello che non c’è, dovremmo forse rispondere. A sfumare (fino ad esaurirli) i contorni che le cose ci illudono di avere. A farci all’improvviso scorgere il rovescio del reale; ma anche a non essere mai certi di quello che vediamo, che sappiamo, che non sappiamo, che sentiamo, che pensiamo, che diciamo, che urliamo, che piangiamo di nascosto. A darci respiro, ad allargare le sbarre della prigione che abitiamo (la abitiamo davvero, non vogliate negarlo, non fate finta di niente), a sbrecciare il muro della nostra cecità, a smagliare la rete del nostro quotidiano ignorare. A fuggire e a ritornare. A rivelare quello che non si vede; così dovremmo (io credo) rispondere.
E la domanda sarebbe questa: a cosa serve la poesia? E la risposta sarebbero molte risposte, tutti i versi che leggiamo o abbiamo letto per esempio (Tanto gentile e tanto onesta, E ‘l naufragar m’è dolce, Di qua di là di su di giù, La vita fugge e non s’arresta un’ora, Il falco alto levato, La splendida, la delirante pioggia, Per cui bello di fama e di sventura), tutti gli spazi bianchi alla fine di quei versi, ognuno degli sguardi dei poeti che li hanno scritti e fissati immobili sulla loro carta.
Oppure, più ragionevolmente, la risposta potreste trovarla qui, in questo breve ma puntuale articolo, che prende spunto da Claudio Magris, Primo Levi e Jorge Luis Borges e prova a dare una ricetta un po’ più pacata ragionevole delle mie (che sono irragionevole, a volte; e quasi sempre quando si parla di poesia):
questa caratteristica evocativa del discorso poetico necessita di un lettore incline ad assumere una posizione più attiva nel corso della lettura; egli dovrà infatti partecipare non solo emotivamente ma anche rimanere aperto alle suggestioni più vaghe e ai movimenti veloci dell’immaginazione, spesso provocati dagli aspetti sonori del testo poetico e dalle analogie: per questo una poesia la si può apprezzare anche se non la si comprende affatto, anche se non dice assolutamente nulla e soltanto perché i versi reggono per la loro vaga bellezza…
O infine, se è qualcosa di più intensamente argomentato ciò di cui avete bisogno per rispondere a una domanda che verosimilmente non vi ponete, ecco, c’è un bell’articolo oggi che parla di Tabucchi e di Pessoa e di un famosissimo quadro di Velázquez che si trova a Madrid: secondo me vale anch’esso come risposta a quella inutile domanda. E dice, oltre a molto d’altro, che c’è qualcosa che ci guarda da dentro l’opera d’arte, ed è in fondo a quel qualcosa (che ci appartiene, per uno strano scherzo del rovescio) che noi, osservati osservatori, dobbiamo una risposta:
La letteratura, come la vita, è un arazzo; sono fili che s’intrecciano nella speranza di costituire un disegno. Qualcosa alla fine compare: in questo caso la storia di un uomo alla ricerca di una verità che proprio nel momento in cui sembra che stia per essere afferrata, svanisce… Se c’è, una verità, è altrove. Da questa parte, che è quella del narratore (e anche del lettore), rimane solo l’inquietudine per l’inconoscibile.