alla fine di ogni verso
23 Giugno 2020due descrizioni di un attimo
3 Luglio 2020Fase 2. Impoverire la lingua. Per Impoverire la lingua bisogna: praticare una lingua nuova; usare un linguaggio a doppia valenza; distruggere parole; parlare una lingua unica; eliminare i classici.
Traggo questa citazione da un libro uscito in Italia qualche mese fa, che analizza le sette fasi con cui si può instaurare luna dittatura di «tipo nuovo» (in senso orwelliano, o addirittura huxleyiano) e che individua nella lingua e nel suo uso il secondo momento decisivo di questa instaurazione (il primo è la «soppressione delle libertà individuali», gli altri li trovate analizzati nel libro stesso: lo ha scritto Michel Onfray, si intitola Teoria della dittatura, è il mio consiglio di oggi).
Mi è tornato in mente stamattina questo passaggio, che avevo letto qualche tempo fa, non soltanto perché gli esami di maturità (i quali, a proposito di nomi che diamo alle cose, non si chiamano più di «maturità» da tanti anni…) ho sentito nominare Orwell molte volte, ma anche perché, come voi (ma forse un po’ meno di voi: sono così stanco e disilluso) ho pensato al futuro prossimo della scuola in questi giorni, ho ascoltato le parole del ministro, ho letto il comunicato del ministero… E come al solito ci ho trovato dentro una lingua nuova, incomprensibile, insensata. Una «neolingua», come diceva Orwell, fatta di sigle e di acronimi (Pai, Pia, Pcto, Prcpttn…), di mostri lessicali, di imprecisione, di fumo, di nebbia semantica, una lingua che vuole nascondere invece di rivelare. Una lingua ignorante e disonesta.
Lo diceva benissimo già Claudio Giunta qualche anno fa, proprio a proposito del ministero dell’Istruzione e di una sua circolare. Lo scriveva così (lo trovate qui) ma oggi la situazione è senz’altro ancora peggiorata:
Il messaggio della circolare ministeriale non passa… perché, nel suo insieme, la circolare ministeriale non sembra scritta in italiano, o meglio perché le parole che contiene sono certamente italiane, ma i rapporti tra le parole non sembrano produrre un senso compiuto: è come se la pressione delle parole – che sono troppe, e troppo pesanti – avesse fatto evaporare i nessi sintattici (che sono anche nessi logici). Il risultato sono locuzioni senza senso come “processi di crescita dei livelli” (”tentativi di migliorare la qualità degli insegnanti”?), o interi periodi che sembrano scritti estraendo a caso dal sacchetto delle parole astratte…
Lo dice altrettanto bene oggi Licia Corbolante, nel suo insostituibile blog, parlando dei distanziamenti cui saranno sottoposte le nostre giovani generazioni a partire da settembre (ma per poche settimane, secondo me) e della lingua con cui al ministero hanno deciso di raccontare e spiegare questi distanziamenti, queste presunte novità, queste misure decisive e tanto attese. Una lingua che dice «rime buccali» invece di bocca. Una lingua che cita «rime buccali» (e infatti lo scrive tra virgolette) ma non ci dice né da dove né perché. Una lingua disonesta, una lingua appositamente impoverita, una lingua irrispettosa. Licia Corbolante lo spiega benissimo così (trovate qui il suo intero e puntuale ragionamento):
Cosa spinge dei funzionari ministeriali a preferire un oscuro termine anatomico a bocca, parola comprensibile da chiunque? E perché non spiegano quali differenze comporta una misurazione tra le bocche degli studenti rispetto alla distanza di sicurezza interpersonale di 1 m che tutti conosciamo da quando sono state messe in atto le misure per contrastare il contagio da COVID-19? Due ipotesi: 1. maledizione della conoscenza. Incapacità di rendersi conto che la maggior parte dei destinatari non conosce il termine medico e tantomeno cosa implichi; 2. pigrizia e/o noncuranza. Gli autori delle Linee guida e del comunicato stampa ignoravano cosa fosse una rima buccale e si sono limitati a riportare pedissequamente il riferimento senza preoccuparsi di capirlo e spiegarlo. In entrambi i casi mi pare si tratti di comunicazione pubblica inadeguata e quindi di mancanza di rispetto per i milioni di cittadini a cui ci si rivolge.
In entrambi i casi, lo aggiungo io, mi pare ci sia sotto, ben nascosta agli stessi estensori del documento (i quali non hanno nulla di diabolicamente orwelliano, lo so benissimo, non hanno certo letto Onfray e forse nemmeno Huxley, sarebbe davvero troppo attribuire loro intenzioni così raffinatamente repressive), la tentazione della disonestà, nella fumosità, il desiderio di usare la lingua per confondere piuttosto che per chiarire, magari l’inconfessabilmente taciuta nostalgia del popolo di sudditi analfabeti, che non capiva e si doveva adattare.
Che, se ci pensate, per essere un comunicato scritto da chi si dovrebbe occupare di istruire le nuove generazioni, è una tentazione fin troppo paradossale.
2 Comments
la vera triste considerazione da fare è che queste lingue novelle (non userei neolingua in questo contesto) sono un fattore di disuguaglianza incredibile, perché solo chi ha una serie di possibilità (e voglia di usarle…) riesce a superare questi scogli. E qui in effetti siamo più nel campo di Huxley che in quello di Orwell… e forse non è un caso che 1984 sia molto più citato di A Brave New World.
Molto d’accordo su tutto, compresa la minor fortuna di Huxley rispetto a Orwell.