il proprio dovere
6 Ottobre 2021Convocazione dell’assemblea dei soci di ATBV
12 Ottobre 2021Tante volte, durante una qualsiasi lezione di letteratura in un’aula di liceo, mi sono trovato a dire che i libri parlano spesso con gli altri libri, degli altri libri, si mescolano e sovrappongono alle voci dei libri che li hanno preceduti: è una specie di coro letterario, provo a spiegare, di cui le parole che ora stiamo leggendo sono soltanto l’increspatura superficiale. Ma nel profondo, in verticale, stanno tanti altri libri, tanti altri versi, tutti i tentativi che altre voci hanno fatto negli anni, nei secoli, per trovare risposta tutti quanti a una sola domanda, «Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai?», senza che una risposta si trovi mai.
A volte, quando spiego la letteratura del Novecento, mi trovo a dire che i libri parlano di altri libri ma anche di film, così come i film parlano spesso dei libri, esplicitamente o no. Succede con i romanzi più recenti ma anche con Sciascia, con poeti come Vittorio Sereni, succede con Stanley Kubrick, con Nanni Moretti (a proposito, provate a leggere qui, chissà se siete d’accordo…), con Mario Martone e Leopardi (quelo della luna in cielo, proprio lui), con tante altre voci e tanti altri cori. Succede spesso, ed è sempre lo stesso vano tentativo, la stessa inevasa domanda (la stessa luna).
Mi piace quindi, anche in omaggio a questo fitto e inutile dialogo di voci presenti e remote, citarvi oggi questa possibilità, che vi era magari sfuggita. O forse, come mi pare che sia capitato a me, avevate sempre saputo che era così ma non sapevate di saperlo: vi eravate fermati sulla soglia della consapevolezza, non avevate avuto la prontezza di dirlo a voi stessi, non vi eravate ben ascoltati.
La possibilità (quasi una certezza…) è questa: che Charlie Chaplin dialogasse fittamente con Charles Dickens, in tanti dei suoi film
Dickens era anche, per Chaplin, l’esempio supremo del bambino perduto che ha fatto strada ma non ha mai dimenticato lo smarrimento iniziale. Charlie, originario del Sud di Londra, non scordò mai le proprie origini brutalmente ‘dickensiane’. Nato in una “miserabile soffitta” (come scrive in La mia autobiografia) a due passi dalla prigione di Marshalsea, nella quale il padre di Dickens era stato rinchiuso per debiti mentre il piccolo Charlie Dickens lavorava in una fabbrica di lucido per scarpe; consegnato all’ospizio dei poveri a sette anni; reso orfano dall’alcol e dalla malattia mentale; posseduto per tutta la vita dalle ossessioni tipicamente dickensiane per il cibo e le strade urbane: Chaplin decifra e rappresenta la propria fanciullezza come quella di un bambino perduto, caratterizzazione illuminata e santificata dall’identificazione con Dickens e con l’infanzia di quest’ultimo.
E ci direbbe molto non solo dei film di Chaplin, ma anche dell’eredità di Dickens, sempre un po’ sottovalutata, sempre un po’ relegata alla rapidità noiosa delle letture scolastiche, chissà perché, quei libri che si sono letti perché si doveva e poi mai più (che ci sarebbe poi anche da dire di Roman Polanski, ad avere il tempo; e di chissà quanti altri). Mentre ha ben scritto Pietro Citati, di recente:
Non amare Dickens è un peccato mortale: chi non lo ama, non ama nemmeno il romanzo; e non capisce che l’arte dell’Ottocento ha forse raggiunto il suo culmine quando ha mescolato il folle riso con la più imperterrita discesa nelle tenebre. Dostoevskij e Tolstoj, Conrad e Joyce, Kafka e Dylan Thomas lessero Dickens con la passione, l’entusiasmo e “l’incoerente gratitudine” che egli richiede da ciascuno di noi”. Vissero insieme a lui: abitarono dentro di lui, come si abita nella propria casa; e appresero da quel “rozzo romanziere popolare” i più sottili artifici letterari.
E cioè, come vedete da soli, altri scrittori che parlano di libri di altri scrittori, Pietro Citati che nomina Franz Kafka che parla con Joseph Conrad che riprende parole di Charles Dickens, tutti che parlano con Miguel de Cervantes, il quale riscrive parole di Ludovico Ariosto, che a sua volta finge di non parlare con Dante Alighieri che nella sua strada dialoga fitto con Virgilio…
Sembra di afferrare una fune e di scendere in basso, o magari di salire in alto, nella profondità della nostra domanda consueta, sempre la stessa, sempre senza risposta. I libri e le poesie, mi trovo spesso a spiegare in un’aula del liceo, fingono di parlare tra di loro ma stanno sempre parlando con noi, di noi; se ascoltarli o no, lo dobbiamo decidere ogni volta, tutte le volte.