
L01 – Gian Luca Favetto – Lettura magistrale – Il Medico colto – Milano 2015
23 Dicembre 2015tre disegni del mondo
28 Dicembre 2015Mi sono comprato alcuni libri, prima che arrivassero le vacanze natalizie. E ora che le vacanze natalizie sono infine davvero giunte, mi fa piacere dirvi che tra i quattro o cinque libri che ho comprato ce ne sono due che ho già più volte letto e che rileggerò a pezzi, come faccio sempre con la poesia. Si tratta del Diario del ’71 e del ’72 e del Quaderno di quattro anni di Eugenio Montale, nelle recenti edizioni commentate uscite presso gli Oscar Mondadori (cioè, a ben vedere, si tratta di poesie che posseggo già in almeno quattro o cinque altri libri, ma che non mi stanco di rileggere).
Vi racconto questo acquisto personale soltanto perché stamattina ho letto un post (lungo, ma breve) su Montale e ne sono rimasto, lo confesso, piuttosto impressionato. Perché Montale e è autore classico, di cui è impossibile dire tutto in poche righe (e infatti il post è lungo), e perché al contrario questo post ci riesce quasi (e infatti è molto breve)), raccontando ciò che di Montale possiamo davvero, con equilibrio, pensare oggi. E magari anche a proposito dei suoi libri scritti e pubblicati dal 1967 in poi (quelli che proprio mi sono comprato io per Natale).
Il post lo ha scritto Paolo Febbraro, anche lui poeta, e propone osservazioni davvero azzeccate, come questa:
Iscrivendosi di diritto alla grande scuola moderna dei vedovi della Realtà (ovvero di tutti i realisti volenterosi e di tutti i decadenti sdegnosi, due facce della stessa medaglia), Montale cerca e cercherà a lungo il varco, l’«anello che non tiene» nella catena o nel muro del mondo, che fin dalla prima giovinezza gli appare ispido, armato, spalto inaggirabile che si sottrae all’esplorazione. La poesia diventa lo strumento robusto e vicario per tentare un’espugnazione che pure sa impossibile, se non per epifanie puntuali, spesso legate al sopravvenire di tracce memoriali, e dunque fatalmente legate all’elegia, al canto della perdita.
Oppure, ancora di più, questa:
Montale non getta via né parodizza scapigliatamente la tradizione (anzi, la Tradizione con la maiuscola, quella occidentale della perdita platonizzante, dello iato fra noumeno e fenomeno), ma saggiamente la porta con sé, come bagaglio risonante, schioccante, che si avverte a distanza come una sonagliera. La forza di Montale è proprio nel non cadere nell’illusionismo astratto del Grande Simbolismo: la sua poesia è seria, cospicua, corrugata: il male di vivere s’incontra per strada, le ombre tanto amate dai decadenti si stampano su un muro scalcinato, e lui riesce a cantare in rime ricche e nascostamente sovrabbondanti persino quando gli oggetti, tutto intorno, “ragliano” la loro chimica estraneità di abbaglio, muraglia, bottiglia.
Fino a una notissima citazione, che dice molto di quello Montale è stato proprio negli ultimi anni e ultimi versi della sua vita, quelli a cui vorrei dedicarmi io in questa vacanza natalizie:
In un’intervista televisiva del 1959 concessa a Leone Piccioni, Montale si fa riprendere sulla terrazza del proprio appartamento milanese mentre dipinge su cartone un vaso di fiori. E afferma: «Io ho cercato dipingendo di ritrovare una certa ingenuità primitivistica dentro di me che naturalmente avevo perduto scrivendo versi, credo di averla trovata, ecco, mi diverto più a dipingere che a scrivere, ma se insistessi molto forse non mi divertirei più nemmeno a dipingere». La stanchezza è infatti, molto presto, la sua musa…
Ecco, la «stanchezza». E poi, se mi si concede il salto temporale e forse anche logico, l’inutile e costante «perdita di tempo» che è la madre, montalianamente, della stanchezza. Le due cifre fondamentali di una contemporaneità che io (e a volte mi pare di esser l’unico) leggo chiaramente ogni volta che prendo in mano i versi del Montale stanco e anziano, quelli del Quaderno e dei Diari, appunto. Quelli che l’autore del post, Paolo Febbraro, pare non amare moltissimo e che io invece mi trovo a riscoprire più preziosi ogni anno che passa. Forse proprio perché sono il racconto di una «perdita di tempo» come quello che oggi ho letto raccontata da Luca Sofri, e da lui molto sbrigativamente assolta.
Ecco, scusatemi la pesantezza, sono arrivato alla mia conclusione: io non so assolverla, questa nostra «perdita di tempo». E continuo a non volerlo fare, per una ostinazione che probabilmente sarebbe degna di causa migliore; anche per questo vi propongo di leggere un classico come Montale e non altro. Ma mi pare che l’essenza della stanchezza e della sofferenza contemporanea di cui proprio quei libri del vecchio Montale parlavano, rientri nel discorso che così rapidamente fa oggi Sofri sul suo blog, liberandosene tanto in fretta, per perdere il tempo altrove:
Il fatto è che la “perdita di tempo” intorno a temi volatili e insignificanti è un prodotto commerciale come altri, alla cui utilità siamo portati a credere dal sistema dei media soprattutto. Corrisponde come altri a quel vecchio discorso sui “bisogni indotti”, o sui prodotti che compriamo anche se non ci servono perché un sistema culturale e di comunicazione ci convince che ci servano: “notizie” cicliche e ripetute ogni volta uguali, allarmi, storie false e le loro smentite e poi daccapo…
Non ho altro da aggiungere al mio Natale. Se non quel poco di auguri che, con grande piacere, rivolgo ai pochi che si ostinano a passare di qui.
1 Comment
Io mi ostino, e riconoscente ricambio!