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la «rucola»

Ogni volta che qualcuno cita le Lezioni americane di Calvino io comincio ad aver paura, o a silenziosamente imprecare, se magari la giornata è già iniziata male, o a indulgere in irriferibili gesti apotropaici… Perché in genere ne segue piccolo discorsino sulla «leggerezza», tirato giù come se bastasse aver occhieggiato un titolo con quel sostantivo sulla copertina di un libro Adelphi per aver capito che cosa e perché, la «leggerezza», e non averci pensato più. Salvo poi parlarne e ripeterlo continuamente, la «leggerezza», eh la «leggerezza», signoramia la «leggerezza», un po’ a caso, come con altre parole d’ordine, le «competenze», per esempio, espressioni del genere, il «progetto», il «merito», buone per ogni stagione (ma soprattutto per questa stagione) e per ogni pietanza, come era stato per la «rucola» negli anni Ottanta (e a proposito di anni Ottanta, tra l’altro: piccolo ma intreressante elenco di quello che era allora la tv e pertanto, lateralmente, di quello che eravamo noi, che quella tv guardavamo).

 

Per cui, insomma, con grandissima gioia ho letto questo breve ma efficacissimo post in cui di Lezioni americane si parla con attenzione ed esattezza (l’«esattezza», infatti), scrivendo alcune cose come questa, che mi paiono ben degne di essere meditate:

 

In questo senso Calvino compie una scelta utilitaristica, adottando tout court un metro d’azione tipico dell’industria culturale, pur essendone sostanzialmente immune in prima persona. Contro la resa eletta a categoria ordinatrice della letteratura che verrà. Perché dopo il primo inebriamento, dopo aver innalzato la soglia critica per entrare nel nucleo dei contenuti calviniani, dopo aver metabolizzato il fascino oratorio di pagine splendide e scritte con sapienza, appare chiaro come l’impianto di Lezioni Americane sia davvero poco solido, sin dalle premesse metodologiche. Nel percorso che lo porta a scrivere Lezioni Americane Calvino è leggero? È rapido? È molteplice? È esatto? È visionario? No. Ha ragione Cesare Garboli quando, in una lucidissima recensione di Lezioni Americane apparsa su L’Indice nel 1988, spiega che Calvino è leggero nel parlare di leggerezza, è rapido nel parlare di rapidità, è molteplice nel teorizzare la molteplicità, è esatto nel definire l’esattezza ed è visionario nel razionalizzare la visibilità. Ma per quanto riguarda l’espressione del senso generale, l’amalgama tra le sue naiadi non si cesella mai, se non nel definire la posizione (disperata e infelice) che Calvino assume di fronte al reale che vorrebbe raccontare. Calvino lo sa; e spesso, durante la discussione, ricorda come nessuna delle sue grandezze di riferimento sia completamente disgiunta dal suo contrario.

 

Leggere le Lezioni americane, quindi. Rileggerle per la seconda o terza volta, se necessario. Per non dire «leggerezza» così, come se non ci fosse altra ricetta, come se quella fosse in qualche modo una ricetta. Non lo è. (E magari io non sono nemmeno d’accordo quando l’autore del post dice che Calvino parla in sostanza di se stesso: ho sempre creduto che Calvino, tacendolo ma sapendolo, parlasse dell’autore che invece avrebbe voluto essere senza mai riuscirci del tutto, ma sempre provandoci. Calvino sognava di essere Ludovico Ariosto, secondo me. E le Lezioni americane sono il racconto di un fallimento, infatti: la resa dello scrittore che ammette di non aver mai raggiunto il suo maestro, di averne perso la coda molti anni prima, di averlo visto passare e niente più.)

 

Ma questa è solo una mia teoria, sono chiacchiere, quelle di Calvino stanno nel suo libro e sono il mio consiglio di oggi. Insieme a un altro post che invece parla di scuola e che magari troverete del tutto inappropriato e scollegato da quanto detto finora di Calvino… e invece no. Sono, secondo me, lo stesso post, seppur declinato («declinare», altra parola d’ordine) in forme completamente diverse. Un post che parla di «fare lezione» e dice cose lontane da quelle che siamo molto abituati a sentire; e usa parole fuori moda ma, date retta a me, le usa bene:

 

L’insegnante è per definizione un soggetto che accetta di passare la vita a studiare ininterrottamente e in modo forsennato. È quello che ho sperimentato e che continuo a verificare ogni anno che passa, da tredici che sono in cattedra, con un pizzico di timore di reggere alla lunga ai miei pomeriggi cinque giorni su sette, dalle tre alle sei del pomeriggio chino sui libri, dopo le cinque ore mattutine di scuola. Insegnando prevalentemente al triennio mi occupo di letteratura italiana dalle origini ad oggi e della storia medievale fino a quella contemporanea. Ogni giorno mi trovo, oltre all’ordinario, nella necessità di studiare sempre più approfonditamente argomenti che continuamente mi sfuggono o che si complicano. Non parlo delle strategie di come comunicarli, no, parlo dell’argomento in sé, delle tanto vituperate conoscenze. Per riportare tutto in classe? Certo che no. Per sapere mille per poter trasmettere dieci, questo sì. Ogni anno che passa si ampia il ventaglio delle mie lezioni frontali che so arriveranno a traguardo. Ho in mente la mia personale lista di argomenti e autori dove so di aver bisogno giusto di un libro o di una fotocopia e una lavagna per portare a casa una lezione ben fatta (il nostro novecento letterario mi è sempre più semplice da trasmettere). Ma ho in mente anche la mia personale lista di argomenti e autori dove so di aver bisogno di molti più strumenti per ottenere lo stesso risultato…

Davide Profumo
Davide Profumo
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