O la cultura è in grado di dirci qualcosa del presente, della casa che abitiamo, oppure semplicemente non è tale. Per questo oggi rifuggo dalla tentazione dello svago, parlare d’altro, e provo a dire e a lasciar dire a scrittori e giornalisti assai più bravi di me quello che forse si può ancora dire (e si deve dire) su quello che è accaduto a Parigi, poche ore fa (ma sembra un anno, perché molto è cambiato nella casa che abitiamo, nel frattempo).
Ma non voglio le parole a caldo. Mi ostino a pensare che la cultura e le sue analisi siano tali soltanto se riescono a fare un passo indietro e a guadagnare distanza, a mettere aria e luce tra sé stesse e l’oggetto della loro tentata descrizione. Per questo, per non farmi prendere dal vortice delle parole emozionate che in queste ore ho letto (e che pure in taluni casi sono state bellissime) parto da un pezzo che risale addirittura a qualche mese fa, che parla di Charlie Hebdo, ma che dice parole secondo me tutt’ora valide, anzi forse ancora di più. Lo ha scritto Raffaele Alberto Ventura; propone, tra le molte idee degne di riflessione, soprattutto questa:
Sotto nessun aspetto quello che è successo a Parigi può essere considerato come un «atto di guerra» come sostengono alcuni apprendisti stregoni, perché sfugge a qualsiasi logica militare. La sua logica è un’altra ed è appunto quella tipica del terrorismo: si tratta di un atto di violenza il cui obiettivo non è tanto di fare un danno all’avversario quanto di provocare una rappresaglia. In Francia ci sono oggi, secondo gli analisti, diverse centinaia di potenziali jihadisti, forse 2000: se costoro vogliono sperare di fare una guerra devono necessariamente sperare nella radicalizzazione di un numero ben più importante di musulmani. I terroristi devono dunque catalizzare su costoro la violenza dell’avversario. Devono alimentare l’odio inducendo la Francia a entrare in conflitto con la popolazione musulmana; e di rappresaglia in ritorsione, riusciranno forse a convertire una parte pacifica della popolazione in soldati per la loro guerra.
Le idee, però, anche le idee migliori provocano in noi anche riflessioni contrarie, è ovvio., Non è possibile essere d’accordo su tutto, lo so: non lo sono nemmeno io, non lo chiedo ai pochissimi che forse mi leggono. Ma c’è un altro pezzo che ho letto e che mi ha fatto molto pensare. Lo ha scritto e pubblicato ieri una scrittrice di origine somala, Igiaba Scego, è già meno a freddo del precedente e dice una cosa a cui non ho più smesso di pensare in queste ore. Questa:
Se fossi il direttore di un telegiornale, comincerei da una bella mappa. Sì, avete sentito bene: una mappa.
Spesso – me ne sono accorta quando facevo l’assistente all’università e dovevo interrogare i ragazzi – le persone non sanno collocare i paesi e le città in una mappa. Il tg sciorina nomi: Siria, Libano, Arabia Saudita, Iran. Ma non sono in molti a sapere dove stanno esattamente questi paesi. La situazione poi peggiora quando si parla di Eritrea, Somalia, Sudan o Yemen.
Viviamo in un’epoca globalizzata dove con un clic si può teoricamente conoscere tutto. Ma in realtà nessuno conosce niente. E così il terrore diventa ancora più terrore. Perché ti senti attaccato dagli alieni. Non capisci bene come si è arrivati a questo punto. Ti sei perso le puntate precedenti. Ti sei perso Beirut che era solo due giorni fa, Beirut dove 43 persone hanno perso la vita. Ti sei perso l’intervento russo in Siria. L’attentato ad Ankara alla vigilia del voto. I massacri in Sudan. Gli attacchi agli hotel a Mogadiscio. Non capisci dove ti trovi. In che epoca stai vivendo. E il populismo di bassa lega non ti aiuta. Anzi ti getta in un baratro ancora più profondo. La tua paura aumenta. E la tua angoscia pure.
Certo, una mappa non toglie la paura. Ma può rendere una persona consapevole di quello che sta succedendo…
E una volta aperta la mappa, io credo, anche qualche piccolo ragionamento di geopolitica potrebbe non farci male. Potrebbe aiutarci a ragionare un po’, a mettere distanza tra noi e la tragedia, a capire: il che è il primo passo, io credo, per reagire davvero, con la giusta arma della ragione. Un pezzo interessante e convincente di geopolitica io l’ho trovato su Limes; lo ha scritto Mario Giro e immagino che i più esperti di me mi diranno che non è del tutto condivisibile. Può darsi; ma certo è un ragionamento da cui in qualche modo si può partire. Per esempio, dice questo:
Siamo in guerra? La guerra certo esiste, ma principalmente non è la nostra. È quella che i musulmani stanno facendosi tra loro, da molto tempo. Siamo davanti a una sfida sanguinosa che risale agli anni Ottanta tra concezioni radicalmente diverse dell’islam. Una sfida intrecciata agli interessi egemonici incarnati da varie potenze musulmane (Arabia Saudita, Turchia, Egitto, Iran, paesi del Golfo ecc.), nel quadro geopolitico della globalizzazione che ha rimesso la storia in movimento. Si tratta di una guerra intra-islamica senza quartiere, che si svolge su terreni diversi e in cui sorgono ogni giorno nuovi e sempre più terribili mostri: dal Gia algerino degli anni Novanta alla Jihad islamica egiziana, fino ad al-Qaida e Daesh (Stato Islamico, Is). Igor Man li chiamava “la peste del nostro secolo”.
Infine, perché è tardi e perché è anche necessario uscire e prendere aria (che è anche questa distanza che mettiamo e dobbiamo mettere tra noi e il male), infine c’è il bellissimo post di Luca De Biase. Lo hanno condiviso in molti amici in questi giorni (e sono stato felice di avere amici così). È un post breve e sintetico e preciso. Vi si dice anche questo:
Chiamarlo guerra è una scelta. Offre l’occasione di rafforzare il potere europeo e il potere statale. Offre la chiave di lettura del conflitto organizzato tra “stati”. Ma non è sufficiente. E non è esatto. Occorrono le parole giuste per definire che cosa dobbiamo fare. Certo, da quando c’è l’Isis che si finge uno stato si può dire che questa sia anche una guerra, ma non è soltanto una guerra. Chi la dichiarerà terminata? Non è una questione solo di stati. È una questione di società, di gruppi di potere, di reti di relazioni basate sulla paura, l’omertà la prepotenza, la credulità, la disperazione. Per noi è una questione di affermazione di valori civili. Individuare il nemico è la sola strada per vincere. Si calcola che i colpevoli dell’olocausto sono stati circa 200mila su circa 65 milioni di tedeschi all’epoca dei fatti (Dan Stone, Histories of the Holocaust. Oxford New York, 2011). E i terroristi sono una minoranza tra le centinaia di milioni di persone che vivono in Medioriente. Lo sappiamo com’è con la mafia: bastano 2000 persone armate per influenzare il destino di un popolo di 5 milioni di persone in modo terribile. Il nemico non è un popolo mediorientale, ma un’organizzazione di potere.
Tutto qui, insomma. Non mi sembra poco. Avrei poi altre pagine da consigliarvi, più intense, più emozionate, probabilmente più drammatiche e ,alcune, forse anche più immediate. Non lo faccio. L’emozione è una risposta facile e ovvia, in questo momento. Ma dentro di me, senza nemmeno capirne bene il motivo, io sono convinto che sia la risposta sbagliata.