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la poesia nello sguardo

Più o meno quindici anni fa vissi un periodo di completa infatuazione per il cinema di Kim Ki-duk; guardavo i suoi film, riguardavo i suoi film, ne parlavo con gli amici, ne parlavo con la mia fidanzata, li riguardavamo insieme, sentivo di avere trovato un regista capace di farmi vedere la realtà con occhi diversi dai soliti, diversi dai miei, da quelli con cui ero stato (e mi ero) abituato a guardarla. Poi ci furono altri registi, poi forse vennero film (suoi) meno riusciti, venne anche una (sua) fase di silenzio e una (mia) fase di stanchezza, poi ci furono altro occhi e altri sguardi, la mia infatuazione si placò (per fortuna…), mi rimase l’idea che Kim Ki-duk fosse uno dei più grandi registi del mio tempo.

Mi rimane ancora oggi, mentre leggo che Kim Ki-duk è morto, ancora giovane, in Lettonia. E mi rimane mentre cedo alla tentazione di parlarne qui, anche se scrivere di cinema mi sembra sempre un po’ presuntuoso e basterebbe forse nominare i titoli di alcuni suoi grandissimi film e poi guardarli e poi uscire di casa e provare a vedere il mondo con quegli occhi, con quello sguardo, lirico e violento.

Ma cedo, invece. E c’è un semplice post che mi pare perfetto per lasciare un’inutile traccia della mia infatuazione per Kim Ki-duk, un post che mette in fila cinque dei suoi film, come una piccola guida per principianti o per chi (come me) ha bisogno di ricordare (ma manca un film, secondo me, bellissimo: La samaritana). Il post (lo trovate qui) cita a un certo punto un altro post (il bello del web…) di Giuseppe Zucco (che invece trovate qui) il quale possedeva questo travolgente, incredibile inizio (da cui ho eliminato i titoli dei film, dovrete andarveli a leggere laggiù, oppure, meglio ancora, dovrete trovarli nella vostra stessa memoria…):

Ci sono film che sono case: spazi da abitare, per anni, in cui vivere, attaccare alle pareti i propri ricordi, uscire, tornare e ritrovare lì dentro emozioni indimenticabili, allo stato incandescente  […] Ci sono film che sono scuole: recinti che hanno custodito a lungo l’irruenza della nostra giovane età, palestre in cui, senza alcuno sforzo, abbiamo appreso la forza esplosiva dei sentimenti e modi di sentire, di pensare, di guardare […] Ci sono film che sono labirinti: posti dove le traiettorie s’intrecciano, le direzioni si diramano, i passi falsi si moltiplicano, le indicazioni si contraddicono, le assi del pavimento sono sempre più sconnesse […]. Ci sono film che sono chiese: territori in cui qualcosa di sacro e rovente si è depositato senza più evaporare, luoghi dove si entra in punta di piedi, con gli occhi bassi, e le labbra a salmodiare parole di speranza e furore […] Ci sono film che sono luna-park: veloci come le montagne russe, grotteschi come la casa degli specchi, inquietanti come il tunnel dell’orrore, cigolanti come le ruote panoramiche, scatenati come i lanciatori di coltelli e svitati come i clown […]. E poi ci sono altri film, che sono polveriere: spazi in cui entri inavvertitamente, senza che nessuno ti dica del pericolo, di quello che lì potrebbe capitarti – in un modo o nell’altro, sono luoghi in cui tutto esplode, di continuo, posti in cui l’immaginario comune salta in aria, in mille pezzi, e ne esce trasformato, rivisitato, appuntito … Uno tra i più celebri film-polveriera che io ricordi è L’isola, di Kim Ki-duk.

Ma anche detto tutto questo (che non è poco, che è moltissimo), mancava a me ancora un punto. E il punto era la mia antica infatuazione, ora diventata calore di fiamma lontana, pacato amore senile… E il punto l’ho incontrato stamattina (la mattina riserva incontri anche sorprendenti), in un articolo di Matteo Maculotti che mi ha detto di Kim Ki-duk quello che forse io non avevo la voglia (il coraggio) di dire a me stesso, dopo gli anni che sono passati: il cinema di Kim Ki-duk è poetico, per questo mi innamorai. Non era difficile, insomma: ci si innamora sempre delle stesse cose, anche se gli anni passano e lo sguardo invecchia. E Maculotti (nel suo bell’articolo, che trovate qui) racconta infatti questo particolare:

A proposito dell’Isola, durante la presentazione al festival di Venezia, Kim Ki-duk ricordò di essere rimasto piacevolmente colpito quando si vide descritto, forse per la prima volta, almeno in ambito internazionale, come un regista dallo straordinario talento per l’espressione poetica: mentre i dibattiti tendevano a concentrarsi sugli aspetti grotteschi e sulle scene più crude della pellicola, confessò, sapere che il suo film era stato interpretato sotto il segno della poesia e della bellezza l’aveva fatto traboccare di gioia.

Mi pare una bella cosa, mi pare un segno che il regista ci ha lasciato. C’è dunque un modo di guardare il mondo, c’è dunque ancora, che ha a che fare con quella cosa che chiamiamo «poesia».

Davide Profumo
Davide Profumo
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