La maggioranza degli italiani (e, in generale, degli europei) è sospettosa nei confronti degli OGM, anche se ognuno per motivi diversi. La popolarità sempre crescente che si sta guadagnando il cibo biologico è sicuramente dovuta, almeno in parte, alla percezione che sia in qualche modo più “naturale” di quello, invece, “manipolato”. Ma che cosa si intenda esattamente con questi termini non è mai specificato. Di sicuro è un fenomeno molto più ampio che sarebbe limitante ricondurre ai soli OGM. Per esempio, in questi anni stiamo assistendo alla nascita di diete che propagandano gli alimenti “naturali” o “antichi” o “privi di”, come il crudismo, la Dieta Paleolitica, fino alla moda dilagante del “senza glutine”.
Questi sono tutti fenomeni accomunati dall’eliminazione di qualcosa che è percepito come moderno, alterato, modificato e, generalmente, “contro natura”, come gli OGM che per molti lo sono ovviamente. Per altri lo sono anche le piante modificate geneticamente con agenti chimici o radiazioni, accusati di causare intolleranze e malattie, come il famoso grano Creso, a cui sono dedicati alcuni capitoli di questo libro. Per altri ancora è contro natura tutto ciò che l’uomo ha modificato volontariamente, come gli alimenti “raffinati”, o che ha iniziato a consumare solo da “poco”, come il latte e il glutine, ed ecco che persino il frumento tenero moderno che usiamo per fare pane e pizza è visto con sospetto, rispetto ai più rassicuranti “grani antichi”.
Avete appena letto (se siete stati curiosi) un piccolo estratto dall’introduzione di uno dei libri che sto leggendo in questi giorni. Il libro non ha nulla di letterario, mi è stato gentilmente regalato da uno studioso di scienze, si intitola Contro natura e, anche per questo, mi è sembrato molto adatto a chi di mestiere si occupa di medicina. Ma è in generale una lettura interessante, per tanti motivi (già avevo letto, e credo anche di averne già parlato in queste pagine virtuali, i due precedenti libri dell’autore Dario Bressanini – il coautore è, in questo caso, Beatrice Mautino). Tra le altre cose (mi pare) è interessante anche perché riesce a sfatare alcuni dei luoghi comuni più ovvii, su cui comodamente ci adagiamo, anche quando parliamo di cibo (e non solo quando parliamo di calcio o di politica). E per esempio, dice anche così:
Sin dagli albori dell’agricoltura l’uomo ha trasformato piante selvatiche in varietà coltivate talmente diverse dal loro antenato, nel caso esista ancora, da non assomigliarsi minimamente. E oggi, una specie coltivata riportata nell’ambiente selvatico non sopravviverebbe una stagione, inadatta com’è ormai a vivere “in natura”. Una pianta che non sopravvive da sola in natura è “contro natura”?
Se per millenni, il miglioramento avveniva un po’ casualmente per opera di ignari agricoltori che selezionavano le piante migliori spuntate per caso in un campo, da un paio di secoli a questa parte, grazie alla scoperta delle leggi di Mendel sull’ereditarietà e soprattutto alle conoscenze di genetica che via via si accumulavano, gli “inventori” di varietà si sono affidati a tecniche sempre più potenti e innovative allo scopo di introdurre nuove caratteristiche. La chimica poteva alterare il DNA dei semi e donar loro nuove proprietà, così come lo potevano fare le radiazioni nucleari. Sino ad arrivare alla rivoluzione dell’ingegneria genetica che permette di trasferire singoli geni da un organismo all’altro con una precisione che nessun’altra tecnica del passato poteva garantire.
E all’improvviso, quelle che erano solo piante come tutte le altre hanno cominciato a essere descritte e percepite come diverse. Per alcuni come capaci di sconfiggere fame e pestilenze, per altri in grado di sottomettere i popoli e le loro tradizioni e di minare l’esistenza stessa dell’agricoltura tradizionale e della nostra salute. Supereroi per alcuni e supercriminali per altri.
Per una volta, insomma, mi permetto di abbandonare un po’ il mio campo e consigliarvi un libro che parla di qualcosa che riguarda proprio tutti: il cibo che mangiamo. Ma subito, non temete, ritorno in me stesso e subito vi parlo di scuola. Non perché abbia voglia di parlare di scuola, in verità (non ne ho nessuna), ma perché in questi giorni, tra le tante cose che verranno dette sulla scuola italiana, si userà senz’altro anche l’abominevole espressione «classi pollaio» (la quale, sia messo agli atti, ha anche lei a che fare in qualche modo con il cibo e con la filiera alimentare…). E quindi, poiché i luoghi comuni si nutrono proprio delle parole più ovvie e delle espressioni più comodamente generiche, mi è sembrato bello e utile che qualcuno si sia incuriosito e abbia tentato di tracciare la storia dell’abbinamento tra una classe e un pollaio. Scrivendo anche così:
Nelle discussioni sulla scuola è ricorrente l’espressione classi pollaio, brutale ma alquanto efficace per descrivere le classi numerose. La trovo particolare perché in questo caso la parola pollaio non è usata in senso letterale né prevale uno dei significati figurati che di solito le vengono attribuiti (luogo sporco e disordinato o dove c’è chiasso e confusione), ma evoca invece l’immagine di un impianto che ha un nome diverso, l’allevamento di polli di tipo intensivo, con gli animali stipati uno accanto all’altro.