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28 Ottobre 2018i ritagli di ottobre
2 Novembre 2018Ci sono forme di leggera inquietudine, dettate nella sostanza dalla mia incapacità di comprendere ciò che accade intorno a me, che da molti anni mi colpiscono a scadenze fisse, o forse semplicemente non mi lasciano mai, anche quando le dimentico. Sono forme sottili di perplessità, la sensazione che sia troppo facile (certe volte) avere ragione e che pertanto vi sia (in questa così facile ragione, amplificata dalla bolla sociale di cui negli anni mi sono circondato, la mia trappola…) qualcosa di sospetto, di taciuto, di sbagliato.
Ma, viceversa, queste forme sottili di inquietudine mi destano sospetti esse stesse, pare che mi dicano: «Perché non ti accontenti delle ragioni più semplici? Perché vai a cercare ombre anche laddove la verità è lampante, la certezza è luminosa, la ragione è ovvia così come ovvio è il colpevole?» E quindi le metto a tacere, le mie forme di inquietudine, fingo di non sospettare nulla, metto i miei like giusti sotto le battute giuste e i post giusti, quelli che criticano le persone diverse da me, quelle con le magliette sbagliate e con i riferimenti pop scorretti o banali, e con gli errori di ortografia.
Ma nessuna inquietudine si lascia così facilmente sopire. E approfitta piuttosto di una voce appena dissonante per riprendere forza e trovare le sue ragioni, le sue ombre, il suo dissenso. E oggi la voce è quella di Demetrio Paolin (ospitato nel suo blog da Giulio Mozzi), che parla di quella signora sgraziata con maglietta sgradevole di cui tanto si è scritto nei giorni scorsi sul web, per dire una cosa che io non riuscivo a pensare così bene, che io non volevo nemmeno pensare, ma che in sostanza pensavo, da sempre. E la cosa che io inquietamente pensavo (Paolin la scrive in questo articolo che va letto per intero, secondo me, senza esitazione) è per esempio questa:
La verità, che forse non vogliamo dirci, è che la Shoah è diventata pop; è entrata nella nostro immaginario che l’ha via via addomesticata. Pensiamo solo alla percezione del fenomeno che può avere uno studente delle superiori. Per lui il lager è diventato un momento della gita scolastica, da mettere in mezzo alla visita di Cracovia o di Monaco di Baviera o di Salisburgo; lo sterminio è una tappa tra le altre. Così, lentamente, la Shoah e il suo concetto si sono resi porosi a queste idee parodiche. Per i ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado il deportato di turno è sempre di più uno che vedi ogni anno, il 27 di gennaio, e sedendoti in aula magna già sai cosa accadrà, così come sai che il 25 dicembre arriva Babbo Natale.
Oppure questa:
Ormai Auschwitz è un nome, puro e vuoto, non ha radici nella storia e non ha più radici nel futuro: lo abbiamo svuotato perché lo abbiamo nominato e con troppa leggerezza. Auschwitz, che è il male assoluto, il luogo più profondo della radicalità dell’offesa, non dovrebbe essere nominato invano, proprio come Dio. Nominare Auschwitz è bestemmiare come violare un comandamento. Invece si è pensato, erroneamente, che per ricordare bisogna ripetere continuamente, non sapendo che proprio il continuo mormorio di una parola fa della parola puro suono, vaso vuoto, che ognuno riempie di cosa vuole.
E sono contento che ci sia stato in questi giorni Demetrio Paolin a dirmi quello che non volevo e non sapevo pensare (e cioè che la foto di quella signora sgraziata non è la foto di quella signora lì: è, in verità, la mia foto). Perché altre volte è più difficile, quasi impossibile, altre volte sono costretto a chiedermi sottovoce, mentre scivolo nel sonno, senza capire: «Ma cosa direbbe Fortini di questa cosa? e cosa direbbe Pasolini? e cosa penserebbe, di queste magliette che indossiamo, uno come Ennio Flaiano?»
Ecco, oggi è un giorno fortunato. Perché c’è anche Matteo Fais che, in poche righe, prova a dirmi cosa penserebbe Pasolini, per esempio. E ripete forse cose ovvie, così ovvie che però nel frattempo ce le stiamo dimenticando, perché è comodo farlo. E sono cose che secondo me hanno qualcosa a che vedere con l’immaginario pop che produce la maglietta sgraziata della signora sguaiata di quella terribile fotografia che è anche la mia fotografia. Cose come questa:
… atteniamoci alle parole del poeta, onde evitare di sentirci dare dei manipolatori: “Esiste oggi una forma di fascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più […] Ecco perché buona parte dell’antifascismo di oggi, o almeno quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto”.
E poi prosegue. E potete leggerlo tutto, se vi va, e vedere se serpeggia pure in voi questa sottile inquietudine che dice che non abbiamo le ragioni che crediamo di avere. O magari invece no, magari mi sbaglio io e la verità è più lampante e luminosa di come pare a me. E speriamo, sinceramente.